La città della Sicilia dove sono nato testimonia fortemente il suo passato di colonia greca, di città romana, araba, normanna, spagnola. Si chiama Agrigento. Il clima è mite.
I mandorli fioriscono prima che il calendario dica che è primavera. Fra i templi greci innalzati a Ercole, a Giunone, a Zeus, ai Dioscuri, ai piedi del tempio della Concordia, superbo dei suoi due millenni e mezzo di storia, quella distesa di mandorli in fiore è il tappeto del sortilegio di una valle che con la sua bellezza lancia in ogni stagione una nuova sfida al tempo.
I mandorli fioriscono prima che il calendario dica che è primavera. Fra i templi greci innalzati a Ercole, a Giunone, a Zeus, ai Dioscuri, ai piedi del tempio della Concordia, superbo dei suoi due millenni e mezzo di storia, quella distesa di mandorli in fiore è il tappeto del sortilegio di una valle che con la sua bellezza lancia in ogni stagione una nuova sfida al tempo.
I miei genitori hanno educato mio fratello, me e la mia sorella in un clima di grande amore. Siccome mio padre e mia madre provengono da famiglie numerose, i cugini, gli zii sono tanti e questo ha reso la nostra famiglia grande e vivace anche perché la nonna paterna abitava con noi. Nella mia città ho frequentato il liceo classico che mi ha visto coltivare i pensieri e i sogni del futuro.
Ero in prima liceo, quando un concorso indetto dalla diocesi, aveva come tema da svolgere “Come può l’uomo di oggi arrivare a Dio?”. Quella domanda me la posi non solo per scrivere il componimento ma per capire se esisteva una strada per andare a Dio. In base alla mia esperienza scrissi che secondo me l’unica strada per arrivare a Dio, oggi come in ogni tempo, è il dolore. Avevo infatti notato che quando un dolore mi buttava a terra, quando una circostanza contrariante mi metteva al muro, la forzata o rassegnata accettazione di quel dolore, di quella circostanza, in qualche modo mi faceva respirare aria nuova e avevo sperimentato sempre anche una certa libertà. Praticamente nel dolore sentivo battere il polso della vita. Fui vincitore del concorso. Ma il premio non mi esaltò. Piuttosto mi fece dedurre che il mio pensiero era giusto.
Dopo qualche tempo, attraverso una serie di combinazioni vengo a conoscenza dei focolarini. Gente speciale. Trovo in loro una limpida corrispondenza tra quello che dicono e quello che fanno. Gente che ha un tale rapporto con la realtà, con Dio, che mi incuriosisce. Il tipo di intesa che avevano tra loro e che stabilivano con tutti era come un bene da sempre cercato e fui certo che con loro potesse prendere vita una parte della mia esistenza che rischiava altrimenti di atrofizzarsi.
Mi interessa la loro amicizia. Se ne rendono conto anche loro. Da Caltanissetta, dove avevano il “focolare”, ben presto tornano a trovarmi ad Agrigento, la mia amatissima città.
In una di queste occasioni Mariano Gerbaudo mi raccontava della sua vita, della sua passione per il jazz, simile a quella per le scalate in montagna e di come fosse stato folgorato a un certo punto da qualcuno che lui sentì più autentico di ogni altra aspirazione. Poi improvvisamente, senza una connessione logica con quello che mi stava raccontando, ferma il suo passo, mi guarda negli occhi e mi dice : "Tanino, tu lo sai che Dio ha dei grandi disegni su di te?"
Una frase fuori contesto. Insolita. Direi strana. Eppure mi sconvolse. Quelle parole oltrepassarono in fretta la ragione raggiungendo lo spazio dove non servono spiegazioni. Entrarono nel cuore. Fu come se in quel momento ricevessi il dono della fede. Era l’estate del 1966. Fino a quel momento avevo di Dio le immagini e le paure del catechismo. Me lo raffiguravo come un burbero amministratore che alla fine della vita mi avrebbe presentato un conto, il bilancio sulla mia vita minuziosamente e puntigliosamente registrata.
Era l'Onnipotente, seduto su un trono lontano, che premiava chi aveva compiuto opere eroiche, chi aveva sopportato con gioia di essere bruciato vivo, chi si era prodigato per gli altri senza misura. Ma che avesse già un progetto su di me, che lui si fosse accorto di me prima che io avessi fatto qualcosa per lui, mi disorientava. Non mi sembrava neanche giusto un tale interesse verso di me, eppure quelle parole le sentivo vere. Furono la mia fortuna. Ebbi la sensazione di essere stato svegliato da un lungo sonno. Quelle parole le "conoscevo".
Mi vidi in relazione a un invisibile “qualcuno”, ma vero e vivo. Quel “qualcuno” era riuscito a dirmi il suo amore. “Dio mi ama!” gridai davanti al mare, dove andavo in quei giorni a confidare i miei pensieri.
Ero talmente preso da quest'idea che anche gli esami di maturità, sempre temuti, ora non occupavano più il primo posto della mia vita. Sono andato a fare gli esami pensando a quel qualcuno.
Tempio di Castore e Polluce, foto di G. Scozzari
Tempio di Castore e Polluce, foto di G. Scozzari
La scoperta che in questo Universo esiste una persona che ama proprio me è di una grandezza incommensurabile. A volte penso a quelle persone che si tolgono la vita.Forse il loro gesto può essere stato influenzato dall''assenza' di questa consdapevolezza. Mi fanno eco le parole: Che nessun uomo ci passi accanto invano.
RispondiEliminaBuona giornata.