“Tutto è vostro! Ma voi
siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1 Cor 3,
22-23)
Siamo nella comunità dei cristiani
di Corinto, vivacissima, piena di iniziative, animata al suo interno da gruppi
legati a differenti guide carismatiche. Da qui anche tensioni tra persone e
gruppi, divisioni, culto della personalità, desiderio di primeggiare.
Paolo interviene con decisione
ricordando a tutti che, nella ricchezza e varietà di doni e leader che la
comunità possiede, qualcosa di molto più profondo li lega in unità:
l’appartenenza a Dio.
Risuona, ancora una volta, il grande
annuncio cristiano: Dio è con noi, e noi non siamo spaesati, orfani,
abbandonati a noi stessi, ma, figli suoi, siamo suoi. Come un vero padre egli
ha cura di ciascuno, senza farci mancare niente di quanto occorre per il nostro
bene. Anzi è sovrabbondante nell’amore e nel dono: “Tutto vi appartiene – come
afferma Paolo – il mondo, la vita, la morte, le cose presenti, le cose future,
tutto è vostro!”. Ci ha donato addirittura suo Figlio, Gesù. Che fiducia
immensa da parte di Dio nel porre ogni cosa nelle nostre mani!
Quante volte abbiamo invece abusato
dei suoi doni: ci siamo creduti padroni del creato fino a saccheggiarlo e
deturparlo, padroni dei nostri fratelli e sorelle fino a schiavizzarli e
massacrarli, padroni delle nostre vite fino a sciuparle nel narcisismo e nel
degrado.
Il dono immenso di Dio – “Tutto è
vostro” – domanda gratitudine. Spesso ci lamentiamo per quanto non abbiamo o ci
rivolgiamo a Dio soltanto per chiedere. Perché non guardarci attorno e scoprire
il bene e il bello da cui siamo circondati? Perché non dire grazie a Dio per
quanto ci dona ogni giorno? Il “tutto è vostro” è anche una responsabilità.
Essa richiede da noi premura, tenerezza, cura per quanto ci è affidato: il
mondo intero e ogni essere umano; la stessa cura che Gesù ha per noi (“voi
siete di Cristo”), la stessa che il Padre ha per Gesù (“Cristo è di Dio”).
Dovremmo saper gioire con chi è
nella gioia e piangere con chi è nel pianto, pronti a raccogliere ogni gemito,
divisione, dolore, violenza, come qualcosa che ci appartiene, condividerla,
fino a trasformarla in amore. Tutto ci è donato perché lo portiamo a Cristo,
ossia alla pienezza di vita, e a Dio, ossia alla sua meta finale, ridando ad
ogni cosa e ad ogni persona la sua dignità e il suo significato più profondo.
Un giorno, nell’estate 1949, Chiara Lubich
avvertì un’unità tale con Cristo da sentirsi legata a lui come sposa allo
Sposo. Le venne allora da pensare alla dote che avrebbe dovuto portare in dono
e comprese che doveva essere tutta la creazione! Da parte sua egli avrebbe
portato a lei in eredità tutto il Paradiso. Ricordò allora le parole del Salmo:
“Chiedimi e ti darò per tua eredità tutte le genti, per tuoi possessi fino agli
ultimi confini della terra…” (cf Sal 2,8). «Credemmo e chiedemmo e ci diede
tutto da portar a Lui ed Egli ci darà il Cielo: noi il creato, Egli
l’Increato».
Verso la fine della vita, parlando
del Movimento a cui aveva dato vita e nel quale rivedeva se stessa, Chiara
Lubich così scrisse: «E quale il mio ultimo desiderio ora e per ora? Vorrei che
l’Opera di Maria [il Movimento dei Focolari], alla fine dei tempi, quando,
compatta, sarà in attesa di apparire davanti a Gesù abbandonato-risorto, possa
ripetergli – facendo sue le parole che sempre mi commuovono del teologo
francese Jacques Leclercq: “… il tuo giorno, mio Dio, io verrò verso di Te…
Verrò verso di Te, mio Dio (…) e con il mio sogno più folle: portarti il mondo
fra le braccia”». (1)
Fabio Ciardi
(1 )Chiara Lubich, Il grido, Città
Nuova, Roma 2000, p. 129-130
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