sabato 31 ottobre 2009

Strega o angelo?


Sui mobili dell'ufficio vedo mazzetti di fiori messi in vasi, in bottiglie di plastica tagliate a metà, in boccali da birra. E' sicuramente il giorno del suo onomastico ed è senza dubbio una dirigente. Le espongo la mia richiesta, certo di una risposta positiva. Invece lei repentinamente si trasforma: i muscoli facciali si irrigidiscono, le rughe, ubbidendo all'ordine di mostrare un nascosto potere di malvagità, diventano solchi profondi. Gridare non si addice alla sua mezz'età ma le sue grinze, tremanti sotto un trucco incerto e sotto la recente permanente dei capelli radi e rossicci, stridono. Mi trovo in Ungheria per studi sulla letteratura dell'infanzia e il paragone con una perfida strega non posso evitarlo. I suoi occhi socchiusi non concedono spiragli di speranza. Neanche i fiori, con la loro innocenza, riescono a darmi una mano. Nessuno e niente sembra resistere alla sua malvagità. Quella stanza, che continua dietro la scrivania, mi sembra la spelonca del maleficio. Se non fosse perché Elena si chiamano persone che amo, anche il nome mi diverrebbe ostile.

"Deve uscire dal paese entro ventiquattro ore. Ventiquattro ho detto!" mentre, su un foglio che dovrò consegnare alla polizia di confine, graffia la sua firma e vi schiaffa sopra, come un malocchio, un timbro che sottolinea l'irrevocabilità della sentenza.

Era il 18 agosto. Il mio visto come turista sarebbe scaduto dopo due giorni ed ero andato a quell'ufficio per chiedere un prolungamento fino al 1° settembre, quando sarebbe inizito il decorso della mia borsa di studio e quindi il soggiorno ufficiale. Mi sembrava ovvio che, pagando, non ci sarebbe stata difficoltà ad ottenere la dilazione di dieci giorni. E invece eccomi davanti ad una macchina burocratica senz'anima, incapace di un'eccezione alla regola.

Nel giro di poche ore son partito in treno da Budapest. Ho telefonato a mia madre annunciandole l'improvviso arrivo. A Bologna dovevo aspettare la concidenza con il treno per la Sicilia. Ne approfitto per telefonare ad amici che non sentivo da tempo anche perché da quando ero in Ungheria avevo allentato i rapporti per evitare qualche imprudenza che avrebbe potuto compromettere il mio soggiorno in un paese comunista dove chi veniva dall'occidente era sempre sospetto portatore del virus capitalista ed era quindi tenuto d'occhio perchè non infettasse i sani.

Nella cabina di un telefono a gettoni vengo a sapere che Gabriella, una cara amica di un borgo delle Marche, era gravemente malata. La notizia mi lasciò di sasso. Pensavo anche alla sua bambina piccola, al marito, ai genitori anziani senza altri figli. Telefonai ancora a mia madre dicendole che posticipavo l'arrivo e che stavo prendendo il primo treno per Ancona. Poi raggiunsi Gabriella a Moresco.

"Ti aspettavo!" mi dice con un filo di voce.

"Sono contento di essere vicino a te, ma non avevo previsto di venire qui. Se non fosse stato per ...".

"Ero sicura che saresti venuto".

Nelle mie mani stringo la sua. Sembra un fragile cristallo. Non so spiegare la sacralità che emana quel corpo sofferente. Attorno tutto è armonioso come lei. Sapeva a cosa andava incontro e vi si era preparata con una fede ogni giorno più cristallina. Mi chiede scusa se non riesce a tenere gli occhi aperti. Con un filo di voce mi confida il suo strazio di lasciare la bambina ancora piccola, l'amatissimo marito. Non piange, ma la sua voce afona è un grido che spacca il mio cuore. Ascolto la fatica di quel respiro che ruba al tempo ancora un attimo, poi un altro attimo. Mi sembra di essere in una chiesa deserta e le voci sommesse che arrivano dalle altre stanze sono come preghiere di un coro nascosto. Incoraggiato dalla stessa fede di Gabriella non ho difficoltà a comunicarle che forse Dio le sta chiedendo l'ultimo dono: la figlioletta e il marito.
Dai suoi occhi scende una lacrima di assenso.
"Avevo bisogno di parlarti. La tua fede mi ha sostenuto nel momenti difficili. Ora restituisco a Dio la felicità che mi ha dato. Mi sento serena e pronta. Ti ringrazio di essere venuto".
Il sacerdote che viene qualche ora dopo trova Gabriella più distesa del giorno prima. Non passa molto tempo e Gabriella è nell'eternità.

Parlando con il marito vengo a sapere di un diario della moglie. Tra le lacrime leggiamo qualche pagina. "Come si fa ad essere degni di una donna così!"
Ne stralciamo qualche pezzo per leggerlo durante la messa funebre.

Dopo i funerali, affollati come una festa di paese, riprendo il viaggio verso Agrigento. In treno mi chiedo se non sto attraversando un sogno. Il paesaggio che corre veloce, i casolari, i campi falciati, le vigne cariche mi sembrano l'enorme fondale del palcoscenico dove si recita la vita con le sue stagioni tragiche e quelle di festa. Chi ha in mano le redini di tutto questo? Chi scandisce i tempi delle rappresentazioni?

Sono commosso e grato a Dio di avermi fatto vivere vicino a Gabriella nei suoi ultimi momenti. E lei mi aspettava!

Provai improvvisamente un'immensa gratitudine per la strega cattiva che mi aveva costretto con forza ad uscire dall'Ungheria. Strega o angelo?

apparso in:
Città Nuova , 20/2007
Uj Varos, Budapest, November 2007
New City Magazine, Philippines, March 2008
Ciudad Nueva, Buenos Aires, diciembre de 2008
foto di T. Minuta

mercoledì 28 ottobre 2009

Insomma

Non ricordo esattamente quanti anni avessi. Ero sicuramente molto piccolo, nell’età dei mille perché. Ed uno dei miei “perché” era: “Perché Peppe non parla?”. “Perché è sordomuto” rispondevano i grandi.
“E perché è sordomuto?”.
Peppe veniva quasi tutti i giorni da noi. Era povero, solo. Gli davamo da mangiare. Il fatto che fosse sordomuto non mi spiegava nulla. Volevo saperne di più.

Assieme a mio fratello, di poco più grande di me, trovammo la spiegazione giusta: “Peppe non parla perché ha finito tutte le sue parole”.

Ricordo che da quel giorno fui preso dalla nascosta paura di consumare tutte le mie parole. Da un momento all’altro anche le mie parole sarebbero finite, proprio come finisce un gelato.
Così con mio fratello decidemmo di conservarci più parole possibili fino a che non saremmo diventati grandi. I grandi, infatti, non hanno problemi. Parlano, parlano, parlano e non hanno paura che le loro parole finiscano.
E io vedevo che di parole i grandi ne avevano tante. E avevano parole difficili, anzi difficilissime. Mio padre, per esempio, quando parlava diceva spesso insomma. Io non sapevo cosa fosse quella parola. Non era un tavolo, non era un oggetto da me conosciuto. Era una parola che solo i grandi potevano dire.
E mi dicevo: “Anch’io da grande potrò dire insomma tutte le volte che ne avrò voglia!”.
E sognavo il giorno in cui finalmente avrei potuto dire: insomma!


Pubblicato in “Italia… parliamone insieme” di Tamás Nyitrai, Antologia di testi italiani, Tankonyvkiadó, Budapest, 1988