domenica 25 aprile 2010

Le caprette illetterate

«Forse sanno quale erba cura l’invidia, come avevano curato
la mia rabbia».

Illustrazione di Valerio spinelli
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Dall’Aula Magna dell’università, il giorno precedente, ero uscito con le gambe che mi tremavano. Dopo la mia prolusione preparata in base all’esperienza dell’anno precedente, interviene una collega che, suppongo per l’invidia provocata dagli applausi che avevo ricevuto, fece un commento alla mia esposizione che annullava praticamente il pensiero sul quale avevo costruito il discorso. Lei con voce acuta sentiva il dovere di contraddirmi perché, perché, perché …
Quelle precisazioni agghiacciarono la sala, mentre la mia testa si accese di voglia di difendere le idee che fra l'altro erano frutto di un intenso lavoro comune. Non era l’insuccesso che mi tormentava, ero amareggiato, offeso da un modo di vedere le cose che non teneva conto dell’altro, sconcertato da una difesa di istituzioni morte e non di persone vive. Chiesi al capocattedra, che mi sedeva accanto, se potevo aprire il vespaio dimostrando il non senso e le contraddizioni della collega. Lui mi dice, impassibile: “Non ammazzarla ora, ammazzala domani!”. Gli chiesi il permesso di non rimanere ancora lì e di dispensarmi anche dalla cena ufficiale.
Nell'intervallo che seguì, uscii dalla sala e dall’edificio. Colleghi e studenti formarono una lunga fila per stringermi la mano. Ed io mi sentivo senza sangue nelle vene.
Mi allontani a piedi dall’università verso la periferia della città, dove cominciava il bosco. Conoscevo i sentieri: quante lezioni preparate lì, quanti colloqui con gli studenti, quante corse!
Mentre i pensieri stavano raggiungendo l’ebollizione, il belato di una capretta che stava dietro un recinto mi distrasse. Mi avvicinai. Lei fece altri belati. Dentro il recinto anche le radici dell’erba erano da tempo mangiate. Andai a cercare in giro erba fresca. Cercai cicoria selvatica. Quando fui al cancello di capre ce n’erano tre, quindi altro tarassaco da cercare. E ogni volta che tornavo al cancello, trovavo il numero delle capre cresciuto. Insomma ci volle un’ora prima che potessi allontanarmi da quel recinto.
Quando ripresi la strada per tornare al collegio, dove occupavo una camera nel settore riservato ai professori, avevo una profonda serenità. Le caprette avevano mangiato anche la radice della mia voglia di vendicarmi. E ne fui felice. Sentivo in me un'immensa gratitudine verso Dio-Amore che maternamente mi aveva aiutato a uscire dal tunnel del rancore.
E non era finita. Quando arrivo alla mia stanza, vedo legata da un nastrino alla maniglia della porta una busta. Altre volte avevo trovato messaggi o comunicazioni che la portinaia in genere infilava sotto la porta per essere sicura che mi arrivassero. La busta, di colore rosa, era chiusa. L’aprii con le mie dita verdi. C’era un foglio con un ornato di fiori delicati disegnati a mano. Cercai la firma. Non c’era.
“Ancora non ti sei reso conto che ti voglio bene?”.
Chi poteva essere? In quel momento non ebbi assolutamente l’idea di indagare tra i volti di alunne o colleghe, ebbi piuttosto l’impressione che quella lettera fosse caduta dal Cielo.
Mi distesi sul letto. Ripassai la lunga giornata, il fallimento del mio intervento, sentivo il belato delle insaziabili caprette. Anche il volto della collega, viola per la rigidità delle sue convinzioni, mi provocò una certa compassione. Forse le capre sanno quale erba cura l’invidia, come avevano curato la mia rabbia.
E poi la dichiarazione d’amore! Io non so immaginare gli angeli, ma in quel momento li immaginai come dei postini nascosti dentro le nuvole che fanno cadere dal cielo, al momento opportuno e all’indirizzo esatto, messaggi che aiutano il destinatario a guardare oltre le parole.
La mattina seguente, prima di andare all’università, passai dal mercato per chiedere alle donne che venivano dai villaggi, scarti di verdure. Ne raccolsi due bei sacchi di plastica. Le caprette meritavano.
Arrivai all’università accolto dal saluto solidale dei colleghi. Raggiunsi la stanza del mio capo. Ispezionò la mia faccia, sorridendo guardò verso le mie tasche. No, non avevo armi. Un sorriso soddisfatto e benevolo sottolineò la stima che ci legava e ... la vittoria del buon senso. Lui non mi chiese nulla. Che cosa avrei potuto dire? Forse delle caprette, sì, avrei avuto da raccontare, ma non dentro l’università! Le caprette sono illetterate.


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Foto mia, illustrazione di Valerio Spinelli
in Città Nuova online, 23/04/2010 e CN  n° 8/2010

venerdì 23 aprile 2010

Ancora GRAZIE!


Dopo la pubblicazione di 
Una goccia d'oceano
per un attimo risplende, 
è sola.
Il suo splendore la rende sola.

Marcello, un amico ritrovato attraverso il blog, è stato il primo a lasciare il commento:
La goccia che compone l'Oceano tale non sarebbe se non per il Sole che la illumina, la fa' splendere e la fa' evaporare per poi ricomporla nuovamente in pioggia. Un ciclo continuo, un dare ed avere.
Anche noi siamo come le gocce d'acqua, la nostra vita brilla se sappiamo riflettere il Sole, ma il nostro passaggio rimane ugualmente scolpito nel tempo.
L'importante e' dare un senso all'inevitabile "evaporazione" per la ricongiunzione con tutto l'Oceano.
Anche Luisa, ringraziandomi, precisa:
Penso che non sia tanto importante la goccia quanto l'Oceano di cui fa parte integrante insieme a miliardi e miliardi di gocce e penso che la scelta di amare non renda soli, in quanto non potrebbe avvenire se non come conseguenza della scoperta di essere stati e continuare ad essere amati in ogni singolo istante della nostra vita!
Nicodemo, (l’amico del blog che consiglio) commenta:
Ogni goccia riflette la luce del sole, ognuna in modo diverso ed in tempi diversi.
Fondamentale sentirsi insieme ad altre gocce, così formiamo il "mare del popolo di Dio".
E' bello sentirsi Chiesa insieme ai tanti popoli che abitano nel mondo, che sono certo diverse da me; possiamo dire di assomigliarci come gocce d'acqua grazie al dono della fede, a cominciare dal battesimo (anche qui acqua !)
Carla mi scrive: In una frase una tremenda verità! La solitudine è il prezzo della luce da dare agli altri. È il mistero dell’amore. L’antica realtà dell’annullarsi. Sono madre e parlo come madre. L’amore che genera la vita ha un prezzo altissimo, ma un valore e uno splendore unico.
Bruno scrive:
Ti conosco attraverso quello che scrivi. Se questa poesia rispecchia la tua vita, capisco che la tua luce è la tua solitudine.
A quel punto ho scritto nel blog com’era nata l’idea della goccia e formulo un augurio per il quale la prima a ringraziare è Giovanna, anche lei di un blog che consiglio.
Anna, del blog di Nicodemo, allora lancia il suo dardo di luce:
La cosa straordinaria delle "piccole gocce nell'oceano" è che cambiano definitivamente l'oceano che non è più quello di prima (che cadesse la "goccia") e non è ancora quello di dopo (quando la "goccia" si integra totalmente nell'acqua).
Né la goccia, né l'oceano sanno di questa "trasformazione", ma esiste e lo sanno tutti gli organismi viventi di questo oceano che - grazie a quella goccia - hanno nuovo ossigeno, nuovo alimento.
Se mettiamo l'oceano=giornata e la "goccia d'acqua"=un nostro gesto vedremmo e sentiremmo questa differenza, questa "sferzata" di energia.
Succede, però, a volte che la goccia si senta "inutile" in tanto oceano, vorrebbe fare di più, dare di più e invece ...
Invece, alla "goccia" (che non ha voglia di deprimersi) viene in mente di ...  "chiamare le sue sorelle e mettersi tutte insieme dentro un bicchiere, portato da una mano (collegata con un cuore) e ... allora si accorge che tante "gocce" possono far nascere il fiore del sorriso, del grazie, del far sentire il prossimo parte di noi ... Così, la piccola goccia con idee geniali, ha trasferito l'oceano della consolazione nella vita altrui ..."
Sai, Tanino, credo che sia la stessa cosa dell'Eucarestia ... credo che sia la stessa logica che - magari - non rimuove il problema del momento, ma di certo aiuta a superarlo e mostra nuove ed impensabili vie per fare di un "problema", un'occasione di miglioramento sia spirituale che concreto.
Spesso, anch'io ho la sindrome della "goccia d'acqua" che ha tendenze tristi ... ma c'è sempre in giro qualche "sorellina" che non ne vuole sapere di vedere gocce tristi e gioca la carta dell' "stiamo insieme e stiamo unite".
Non hai porto solo un bicchiere d'acqua, hai "acceso" il sole di quella giornata alla tua collega.
 

Conclusione mia:
Non immaginavo che il blog mi potesse rendere così ricco. Non si tratta solo di amicizia ritrovata, come Marcello, ma del bene che ciascuno è. Mi sembra che il blog sia un lotto di cielo dove ciascuno può lanciare la propria pietra che, per incanto, si accende in stella per molti e molti. Grazie!


Foto mia

mercoledì 21 aprile 2010

Un'accesa goccia d'oceano


Grazie, Marcello!
Rispondo a te per ringraziare quanti mi hanno scritto su “una goccia d’oceano”.
Ognuno ha espresso cosa ha trovato in quella frase. 
Cosa ho voluto dire?
La scelta di amare mi rende solo e ... mi accende.
Ero sotto una pesante angoscia. Pur in quello stato in cui ero prigione di me stesso, decisi di portare un bicchiere d’acqua a una collega anziana che si lamentava per un terribile mal di testa. In quel momento gli occhi della collega sembrarono rispecchiarmi e riflettere una luce. Lei ringraziandomi, disse: “Sei il collega più cordiale della scuola, ma ti vedo unico e lontanissimo, forse perchè sei libero”.
Ciao, Marcello, è bella la tua “lettura”.
A tutti l’augurio di essere …un’accesa goccia d’oceano. 
                                Tanino

foto mia

martedì 20 aprile 2010

Una goccia d'oceano











Una goccia d'oceano
per un attimo risplende, 
è sola.
Il suo splendore la rende sola.

foto mia

venerdì 16 aprile 2010

La città dei cappelli


Un giorno la nebbia della superbia invase la città.
Il sindaco pensò subito come mostrare che lui valeva più degli altri e, siccome le corone non erano di moda, decise di farsi fare un cappello speciale. La domenica, quando tutti andarono a passeggiare nel parco, c’era anche lui assieme alla moglie. Aveva un cappello che sembrava la torre di Pisa, mentre la moglie ne aveva uno così largo da sembrare un ombrellone da spiaggia. La gente moriva d’invidia.
La domenica successiva la passeggiata fu una solenne sfilata di berrettoni, cappellini e cappelloni. Ce n’era uno così grande che non si vedeva neanche chi c’era sotto. Un altro era così pesante che dopo alcuni passi, la signora che lo portava, cadde svenuta mentre la sua amica, che aveva in testa una specie di cesto di fiori, cominciò a correre inseguita da mille api.
La signora Cilla, che era golosa, con il suo cappellino di pasticcini e confetti fu talmente oscurata dalle mosche che ruzzolò a gambe in aria. Il conte si presentò con un cilindro carico di perle preziose e le gazze aspettavano quel momento per rubargliele. E lui a urlare.
Il vento si accorse che i bambini, nascosti dietro un cespuglio, si divertivano a guardare. Per aumentare la loro gioia, si unì alla sfilata. Improvvisamente i cappelli volarono. Anche frutta, mosche e api volarono. Ognuno si aggrappava al proprio cappello e il vento, incurante di cosa gridavano, li trasportò in mezzo a un prato e li fece cadere uno a uno, disponendoli a cerchio. Erano tutti così gonfi di vergogna da non avere il coraggio di guardarsi. Uno dei bambini arrivò in mezzo a loro e chiese: “Siete bravissimi a fare cappelli, perché non costruite per noi degli aquiloni?”
Tutti si guardarono e si sorrisero. La domenica seguente il vento riempì il cielo azzurro di aquiloni. Le finestre delle case si aprirono a tanta festa e la superbia, che non sopporta il profumo del vento, uscì dagli angoli bui e volò lontano, lontano, lontano.   
Illustrazione di Gianni Madore

giovedì 15 aprile 2010

I figli che vedono



Ciao, Tanino!
Parlando con alcuni compagni di scuola, siccome mia madre mi aveva aiutato a preparare i dialoghi per un piccolo spettacolo, ho detto quanta stima nutro per i miei genitori.
All’inizio mi hanno preso in giro, poi quando Loredana è scoppiata a piangere tutti sono diventati seri.
Abbiamo cominciato a dire quante cose riceviamo senza accorgercene.
Quello che volevo dirti è che nel tuo blog che racconta storie belle, devi dire che anche i figli si accorgono di quello che fanno i genitori, anche se non lo sappiamo dire o riconoscere.
I genitori che hanno più figli ci sembrano degli eroi e rimangono un esempio di speranza vera per noi. Insomma non è la speranza dei politici e dei mass media.
Fabrizio  

foto mia 

lunedì 12 aprile 2010

Una pesante pagina di storia

LA NOTTE TRA IL 13 E IL 14 APRILE 1950

In Slovacchia viene ricordato il 60° di una triste pagina di storia.
Nella notte tra il 13 e 14 aprile 1950, la polizia segreta del regime comunista dell’allora Cecoslovacchia irrompe in tutti i conventi e arresta i religiosi.
Riporto il ricordo di due testimoni, il cardinale Ján Korec, e Pavol Ferko, scomparso qualche settimana fa, che è stato uno dei canali che ha permesso al Movimento dei Focolari di mettere radici e svilupparsi nel Paese.


                                                                                                    
Ján Korec:
Quella notte fu unica in mille anni di cristianesimo in Slovacchia e in Boemia. Quella notte in cui la nostra stessa gente, sfidando la storia e la sua evoluzione morale, commise un atto che non era balenato in mente né ai Tartari, né alla autorità turca, né ad alcun invasore nel lungo corso della storia del nostro paese. Quella notte, che ricorderemo in molti come la più oscura e barbara della nostra vita, non solo per l'inaudito atto contro migliaia di suore, ma per la violenza usata contro la cultura e la spiritualità della nostra nazione, fu la notte che segnò la nostra vita. La notte in cui tutti gli ordini religiosi maschili furono soppressi.
A quel tempo ero a Trnava in un collegio gesuita. Studiavamo teologia. Già da due o tre giorni eravamo un po' inquieti. L'economo della casa, Padre Kajtàr, aveva incontrato in città una signora che gli si era accostata furtivamente sul marciapiede e gli aveva detto in fretta: «Padre, faccia attenzione, vi vogliono eliminare!» ed era subito sparita. Quando ce lo raccontò non demmo molto peso alla cosa, ma l'inquietitudine si era ormai insinuata in noi. E poi accadde...
Nella notte tra il 13 e il 14 aprile 1950 fummo svegliati da passi pesanti e risoluti nel corridoio del nostro gran­de collegio e da colpi di mani e calci di fucile alla porta. Erano guardie, forze dell'ordine regolari accompagnate dalla polizia segreta. Come apprendemmo poi, poco dopo la mezzanotte avevano scavalcato le alte mura di cinta del collegio, ed erano penetrati nel cortile sparpa­gliandosi poi per tutti i corridoi….
(da Ján Korec, La notte dei Barbari, Piemme, 1993)



Pavol Ferko:
I miei genitori, molto poveri, hanno educato me e mio fratello secondo principi di giustizia. Mio padre era simpatizzante del comunismo prima che arrivasse da noi nel 1948. Al liceo, fui contagiato dalla passione per la Chiesa da un sacerdote e cominciai a coltivare il sogno di andare missionario in Russia, dove il comunismo aveva annientato la chiesa. Non potendo frequentare il Russicum a Roma, su consiglio dello stesso sacerdote, entrai tra i gesuiti. Ero già al secondo anno di filosofia, ed avevo già emesso i voti, quando accadde quello che il futuro cardinale Korec  definisce “la notte dei barbari”. Tra il 13 e 14 aprile 1950, di notte, in tutti conventi della Cecoslovacchia ci fu l’irruzione di poliziotti armati. Il totale degli arrestati fu di 2192 religiosi. Siamo stati caricati sui bus con i vetri oscurati in modo che non vedessimo dove andavamo. Lo stato voleva liquidare la chiesa. Gesuiti e cappuccini erano considerati i più pericolosi. Siamo stati dislocati in vari edifici del Paese e mandati tutti a fare lavori manuali pesanti. Dopo un anno ho fatto un corso di tornitore a Praga. Avevamo dei turni talmente massacranti che mi sono gravemente ammalato di ulcera…

Foto mie

giovedì 8 aprile 2010

Il lavavetri di Ginevra

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Dal sedile della sala d’imbarco guardo attraverso le vetrate il traffico dell’aeroporto di Ginevra. Il sole è incapace di vincere la compatta coltre di nuvole bianche che nasconde l’altezza delle colline. Nel corridoio che conduce alle bocche d’imbarco, tra due lunghe pareti di vetrate, vedo come in uno schermo un ragazzo che spinge il carrello di secchi, stracci e spatole tergivetri. Si ferma. Comincia dalla prima vetrata. La schiuma del sapone di colpo non mi fa vedere più nulla, come un’improvvisa nevicata, poi la spatola di gomma, passata con braccio deciso mi riconsegna, striscia dopo striscia, il panorama. Quando la vetrata è tutta pulita, il ragazzo arrotola sulla punta di un bastone uno straccio bianco e lo passa sulle giunture e sugli angoli non raggiunti dalla spatola. Un servizio perfetto. Poi un’altra vetrata così fino all’imbocco del finger, il corridoio sospeso come un trampolino fino alla porta dell’aereo. Da lì torna indietro e passa alle vetrate dell’altro lato. Ho notato che sono quasi tutti stranieri quelli che occupano i posti più vari dell’aerostazione. E tutto funziona come un orologio “svizzero”.
Quel ragazzo, forse dell’area India-Pakistan, ha un modo di fare nobile. Lavora con precisione e serietà come se fosse solo.
Quando, a lavoro finito, sta per scomparire gli faccio un cenno di ringraziamento. Lui risponde  con un mezzo inchino, e nel suo volto scuro si dispiega uno splendente sorriso.
La coltre di nuvole si è alzata e vedo stagliarsi il contorno di una collina. Sui sedili di fronte, si fa sentire una coppia di mezz’età. Non sembrano felici di vivere insieme. Sono isolati ciascuno nel proprio romanzo, chissà se leggono perché a intervalli c’è qualche scatto di rabbia o parola detta a denti stretti. Sembra che lui guardi troppo le donne. Lei, ben truccata e vestita con gusto raffinato, pur senza seguire dove gira lo sguardo del marito, con gli occhi nel libro bisbiglia qualcosa che sa di avvelenato. Guardo le colline sempre più verdi. Un giovane sacerdote viene a sedersi vicino alla coppia. Clergyman nero e al collo della camicia il caratteristico quadratino bianco.
Sulla giacca risplende una croce di metallo. Qualche posto più in là si siedono due innamorati che si rannicchiano l’uno nell’altra, come per non uscire da un sogno.
Nell’aria condizionata della sala quel sacerdote pieno di vita sembra che venga da un altro pianeta.
Il Papa a giugno del 2009, in occasione dell’anniversario della nascita del santo Curato d’Ars, ha voluto iniziare un anno dedicato al sacerdote a chiusura dell’anno dedicato a san Paolo ed ha accostato l’umile prete di villaggio al grande apostolo delle genti. Due figure così lontane. Cosa li unifica? Il mistero del sacerdozio.
Il giovane prete mi sembra nobilitato dal suo segreto, direi da un amore, ed ha qualcosa di attraente. Mi torna in mente che anni fa, avevo trovato sotto il tergicristallo della macchina lasciata al parcheggio una cedola pubblicitaria. C’era scritto a grandi caratteri “Sei chiamato? Chiama!” Suggerimento ad incentivare il traffico dei telefoni cellulari, ma a me, sempre incantato dalle coincidenze, sembrò l’invito a comunicare ad altri la vocazione ricevuta. Ora quel sacerdote, soltanto con il suo clergyman, il suo non essere distratto o curioso, con la sua essenzialità, è qui a ricordarmi che se ho il dono di una vocazione, non posso non comunicarlo agli altri. La sua presenza mi aiuta a lavare dalla mia mente le tracce delle lucenti vetrine straripanti di saldi convenienti, degli inutili souvenir, di quel senso di frustrazione che ti opprime di fronte a tutto ciò che non puoi avere. Il consumismo è un binario, invisibile ma forte che conduce i tuoi stessi pensieri lasciandoti l’illusione che le redini della vita sono sempre nelle tue mani. Quell’austero clergyman nero, ora mi sta invitando a passare all’attacco. Annunciare un’altra possibilità di vita. Quel sacerdote sta facendo quello che ha fatto il lavavetri. Togliere ciò che altera la visione della realtà.
Uno dei bambini di una numerosa famiglia, giocando viene a nascondersi vicino a me. Metto il mio zaino in modo tale che il piccolo sia meglio nascosto. La sorellina lo cerca, si avvicina… ma non lo vede. Faccio talmente bene l’indifferente da far ridere il sacerdote che aveva sollevato gli occhi dal suo breviario.
“Dovremmo tornare a giocare come i bambini e la pace sarebbe assicurata”, mi dice in francese. E io, approfittando del dialogo, lo ringrazio per il suo clergyman, una predica senza parole. Ci presentiamo, viene a sedersi al posto dello zaino e scambiamo qualche notizia su ciò che facciamo.
I genitori dei bambini ci guardano mentre seguono il gioco dei figli. La coppia dei mezza età è sempre più in guerra.
Quando dico al sacerdote che lui è come il lavavetri, scoppia in una risata così sonora che fa uscire dal sogno gli innamorati che ci guardano e sorridono. Poi si fa serio quando dico quale grazia sia incamminarsi su una strada che fa arrivare al punto di dire con san Paolo “Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me”. Dopo un profondo silenzio mi dice: “Se incontri il tuo lavavetri, ringrazialo anche da parte mia”.


Foto mie

lunedì 5 aprile 2010

risposta di Saverio




Tanino, ciao!
Non ho mai fatto gli auguri di Pasqua, ma stavolta la Pasqua è stata diversa. Dopo aver trovato il coraggio di scriverti ho letto le reazioni di alcuni lettori che si rivolgevano a me. E tu hai aggiunto la tua risposta dopo qualche giorno. Ero emotivamente attratto e divertito per il fatto che gente sconosciuta si interessasse al mio caso.
La vera risposta è stata quello che tu hai vissuto accanto a tuo padre morente.
Per te risurrezione vuol dire la capacità che l’uomo ha di amare gli altri.
Hai fatto centro! La risurrezione, come la fede, non è spiegabile. Si può soltanto farne esperienza.
Ringrazio te e gli amici tuoi.
      Saverio



foto mia

sabato 3 aprile 2010

Chi risorge?














Gesù risorge nella tua vita, oppure sei tu che risorgi in Lui?

Fai un gesto di sempre, come prepararti un caffè, aprire una finestra e ti accorgi di essere un altro.
Sei un altro perchè qualcuno ti ha comprato, si è impossessato di te.
Guardi con i tuoi occhi gli oggetti che conosci e ti rendi conto di essere distante dalle cose. 

Cosa ti è successo?

Anche se tentassi una risposta, mai l'avresti.

Nella tua vita si è impiantato un Altro e...
paradossalmente soltanto ora la tua immagine è perfettamente a fuoco.

Questa è la tua Pasqua!


Foto mia

giovedì 1 aprile 2010

Nessuno è esente dalla Risurrezione

Sono a Roma, assisto mio padre in ospedale ed, essendo molto grave, mi hanno permesso di vegliare.
Durante la notte viene da me un’infermiera per chiedermi se ho bisogno di qualcosa. Le dico semplicemente, a voce bassa, che non ho bisogno di nulla. Lei va via.
Mio padre mi fa cenno di avvicinarmi a lui. Parla con difficoltà e con un filo di voce mi dice: “Non hai ringraziato bene l’infermiera. Vai da lei e dille che è stata molto gentile a occuparsi di te”.
Così faccio. Nel lucido corridoio dell’Ospedale Gemelli, mentre torno da mio padre, mi chiedo come mai lui, che è nella piena sofferenza, si è accorto di un ringraziamento non perfetto.
Lui continua ad essermi padre, a insegnarmi cosa vale nella vita. La vera lezione per me è il paradosso di vedere un corpo distrutto e una carità sempre più viva e raffinata. In un corpo disfatto vedo qualcosa che non si consuma. Anzi, vedo un fuoco che aumenta.
Quel luogo di consumazione, dove ogni stanza è colma di dolore, diviene improvvisamente una cattedrale di luce. Posso costatare, nella purificata carità di mio padre, il segno tangibile di Colui che ha vinto la morte.
Quando, il giorno seguente, mio padre ci lascia, non vedo la morte ma la risurrezione che affonda sempre più le sue radici in terra. Ed è il giorno dell’Epifania.
Mio padre mi ha dato e insegnato molto, ma non mi ha privato della lezione più vera: mi ha testimoniato la Risurrezione.

«Io sono la risurrezione e la vita» (Gv 11,25)

Foto mia nel parco del Santuario di Siracusa