sabato 28 novembre 2009

Dicembre 2009











“Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5,16).

Difficile strada di montagna. Guido la macchina di un amico anziano. Lui conosce queste stradine e lo vedo da come, con la mano, fa segni di rallentare, accelerare, procedere con prudenza. Con la coda dell’occhio seguo quei gesti, talvolta appena accennati. Metto tutto il mio impegno per riuscire a essere in perfetta sintonia per guidare esattamente come l’amico condurrebbe la vettura. Lo immagino come un direttore d’orchestra e provo un’immensa felicità quando riesco a eseguire perfettamente il pezzo.

La sera mi telefona Massimiliano, un frate di un antico convento. Da qualche tempo il rapporto con il suo superiore si è fatto difficile e mi dice che non ha più forze per sopportarlo e quindi ha deciso di lasciare la strada intrapresa.
Gli racconto del direttore d’orchestra e mi accorgo che il suo silenzio si è fatto denso. Poi mi dice: “Forse il mio errore è stato di avere atteso qualcosa da parte del superiore ma lui non può suonare il mio strumento, non può sostituirsi a me. Lui può soltanto aiutarmi a essere in armonia con gli altri! Devo riappropriarmi del mio strumento, cioè della mia responsabilità e mostrare il mio talento nell’armonia dell’insieme”. Massimiliano piange.

Finita la telefonata, mi rendo conto che un’idea nata da un gesto d’amore ha liberato un raggio di luce che qualcuno, da qualche parte, attendeva.

Città Nuova, L'arte del direttore d'orchestra, 7/2009

mercoledì 25 novembre 2009

Il dormiveglia del condannato




Tutte le volte che torno ad Agrigento, la città dove riposano i miei morti, mi stupisco nel vedere sui volti dei conoscenti le devastazioni compiute dal tempo. Sfregi di vario grado che la giacca alla moda o la tintura dei capelli non corregge.
Vedo anche bellezze non conosciute che si affacciano fresche sulla scena e rivedo in loro il mio carico entusiasmo, le mie stesse ingenue legittime speranze di un tempo.
Mi girano nella testa alcune canzoni che ho ricevuto per Natale da Maurizio, un vecchio amico. Ha raccolto in un CD le mie canzoni preferite, quelle ardite dei cantautori coraggiosi degli anni Sessanta e Settanta che cantavamo insieme accompagnandoci con la chitarra, quelle canzoni dove la parola è incoraggiata dal suono e diventa poesia che fa breccia nel mondo dei sogni. Sogni lontani, mai raggiunti in tutta la loro estensione. Scadenza oltrepassata oppure da attendere ancora?
La musica ha il potere di trattenere il tempo, dicevo a Maurizio quando l’ho ringraziato del dono. E lui “più che trattenere il tempo, la musica ha il potere di far riemergere il vissuto”. Ma dove riposa il vissuto?
La canzone che canticchiavo mi riportò alla passeggiata domenicale dei miei sedici anni, onde che vanno e che vengono, cavalloni alti sulla punta del cuore e vestiti nuovi o stirati bene. Una scena che si ripeteva dentro il budello della Via Atenea o lungo il palco del Viale della Vittoria.
Oggi il viale, con una comoda strada in discesa, mi sta portando fino al cimitero dove molti sguardi che un tempo scintillavano ora sono fissati per sempre su lapidi più o meno lucidate e il mio andare in mezzo a lapidi antiche e nuove è popolato da un silenzio acuto, insostenibile. Una lacrima che secca prima di cadere.
Le domande, forse per una loro forza scaramantica, non arrivano a traboccare dal cuore carico di smarrimento. Temono di non atterrare su nessuna risposta. Passeggio col mantello del silenzio che senza pesare mi cade addosso perfettamente. Il mantello portato da mio padre, da mio nonno… Ho raggiunto la statura del loro tempo che una volta mi sembrava irraggiungibile.
Mi distrae un profumo troppo forte per quel luogo, un maquillage dissonante col grigio dei marmi, più finto ancora dei fiori di plastica che non vogliono marcire. Non mi distrae un grido disperato mescolato a fiori freschi e non è dissonante la povertà di un vestito fuori moda o sbiadito dall’uso. Questo è un luogo sicuro, pregno di verità e giustizia.
Incontro un amico. Non mi riconosce. Da come guarda vedo che il suo orizzonte si è spostato oltre il reale. Parlo con la moglie e lui mi scruta come un bambino osserva un nuovo giocattolo. Poi in quegli occhi mi rivedo e mi ritrovo. Non dico nulla, se il pensiero dovesse rivelarsi mi metterei a gridare e piangere. Lui, cercando nei miei occhi purificati dal dolore, mi rivela un segreto:
“Siamo dei condannati a morte, siamo stati sempre condannati a morte. Non lo sapevamo, la forza dei sogni ci offuscava la vista e non sapevamo leggere il foglio di condanna. La vita è un dormiveglia sterile. È ora di svegliarsi!”
Dissi qualcosa come domanda. Lui molto serio, guardando oltre la spalla disegnata dal mio mantello, aggiunse: “se non siamo capaci di svegliarci, cerchiamo di dormire”.
Distolto lo sguardo dalle mie mani che volevano afferrare le sue, aveva già dimenticato che ero davanti a lui. La moglie prese subito la direzione del passo del marito. Non avevano altro tempo, non erano interessati a sapere nulla della mia vita. Avrei avuto da raccontare. Ma cosa raccontare a chi si è sciolto da ogni legame?
Li vidi allontanarsi sulla striscia del vialetto incorniciata dal verde scuro dei cipressi. Quegli alberi austeri come monumenti puntavano in alto e presero con loro il mio sguardo verso un cielo che insolitamente prometteva pioggia.



Pubblicato in Città Nuova, 9/2007
Agrigento, Tempio di Giunone, foto di Giacomo Scozzari

venerdì 13 novembre 2009

Libertà


La libertà è lì
dove le cose non contano più
è lì dove non condanni chi ti ha fatto male
è il silenzio dove ti rifugi
non a preparare la tua difesa
no!
ma per rinascere
dalla solitudine di sempre.
Libertà sei tu!
Nessuno può dartela:
ti darebbe la sua idea di libertà.
A nessuno puoi donarla
si può dare amore.
E quando avrai imparato dalla vita
che la vita sei tu
quando ogni uomo sarà per te niente e tutto
quando non darai la colpa dei tuoi dolori a nessuno
se non a te
allora
sarai già nello spazio
dove la vita sposa la morte
che non sarà più la tua nemica
ma un momento del tuo esistere
e...
diventerai capace di morire.

Un amico pittore aveva attaccato il foglietto con queste riflessioni sulla cornice di uno dei suoi molti quadri. Un poeta, oggi noto parlamentare, leggendole, volle conoscermi e mi chiese di scrivere l'introduzione ad una sua raccolta di poesie. La foto è mia.

mercoledì 11 novembre 2009

Giocavamo a nascondino ...



Come fai a descrivere i sentimenti che provi, ben nascosto in una tana, mentre qualcuno è alla caccia di te e sta facendo di tutto per scovarti?
Pensi a tutti i nascondigli più sicuri che ci sarebbero stati. Trattieni il respiro. I passi del lupo si fanno vicini. Chiudi gli occhi. Hai paura di vedere le sue zampe che si avvicinano come un gatto. Anche lui, come te avrà paura di farsi sentire? Sentirà come batte il tuo cuore? E' veramente cattivo?
Vedi allontanare le sue scarpe. Respiri profondamente. Poi lui torna da un altro angolo. Il cuore sta impazzendo, sembra che scoppi. Il sudore fodera il tuo corpo "se almeno quel sudore ti rendesse invisibile!"

Immagini di diventare improvvisamente trasparente, leggero e di uscire dalla tana inosservato , di volare... e nessuno mai, mai ti troverebbe, nessuno ti cercherebbe. No, non sarebbe bello scomparire. Che gioco sarebbe se nessuno fosse in cerca di te?
Un brivido dalla schiena si diffonde per tutto il corpo. Senti bisogni improvvisi. La gola è secca. Vorresti gridare. Senti caldo, senti freddo. Ti fa male lo stomaco. Ti ritrovi sotto il vecchio armadio della nonna con la bocca piena di quella polvere che lei con la sua artrosi non ha potuto raggiungere. Chiudi gli occhi, ti senti più protetto.
Poi silenzio. Il passo pare si sia allontanato. Quasi ti dispiace. Starà cercando gli altri? Anche loro saranno sulle spine come te?

Forse è il momento di respirare a pieni polmoni. Ti sembra di non aver respirato mai così bene. E finalmente puoi aprire gli occhi a tutto tondo. Ancora silenzio. Lunghissimo, interminabile. Dove sarà andato?
Vuoi sfruttare questa tregua per correre al bagno. Guardi la polvere che sul pavimento si arrotola in batuffoli leggeri che si sollevano al tuo respiro caldo e umido. I gatti, come li chiama la nonna, non ti hanno tradito. Poi senti odore di naftalina. Una pallina consumata striscia sul pavimento appiccicata al palmo della tua mano umida.
Meno male che sei così magro da poterti infilare dove nessuno potrebbe pescarti. Ti trascini verso l'esterno. La polvere è appiccicata non solo sui palmi delle mani, ma anche sulla guancia.

Sei libero!

Ma il lupo è stato furbo. E' salito sopra una poltrona per aspettarti. Un salto e sei in trappola. "Preso!".

Il cuore batte forte, il respiro quasi ti manca. Chi ha corso di più, tu o il lupo?
Dopo anni ti rendi conto che ancora stai giocando a nascondino. Con Dio.
E sei felice che lui ti scova e ti acchiappa sempre.

Foto di Attila Adam

lunedì 9 novembre 2009

I comignoli di Via del Cigno
















Nel cuore dell'Europa c'è una grande città. Tra le case accoccolate sulla collina del Castello s'inerpica una strada chiamata Via del Cigno. Tante e tante sono le case e, sui loro tetti, tanti e tanti sono i comignoli.

Di sera, quando tutte le luci nelle case si spengono, i comignoli finiscono di fumare e si ritrovano fra di loro per raccontarsi tutto quello che è successo dentro le loro case.

Quella notte, però, ne mancava uno, Ervin. Era rimasto al suo posto, solo, pensieroso e triste. Molto triste. Quando Gelsomino andò da lui, vide che stava proprio piangendo.

- Che ti succede? Stai male?

- No, non sto male. Sono molto addolorato. La mia padrona, zia Elisabetta, è malata. Non ha più forza di accendere il fuoco. Non si alza più dal letto. Ha freddo, non mangia. E' sola, nessun vicino di casa viene a trovarla.

Intanto si erano avvicinati tutti gli altri comignoli.

- Dobbiamo fare qualcosa! - dissero

- Ma cosa? - si chiesero in coro.

E mentre stavano a pensare, riflettere, discutere, ragionare e ponderare, la neve cominciò a incoronare le loro teste, ma i comignoli erano così sprofondati nei loro pensieri che non si accorsero di essere già tutti coperti di bianco.














- Cosa vi è successo? Sono tornata dopo tanti mesi, e voi neanche un saluto di benvenuto. E io che non vedevo l'ora di ritrovarvi per stare con voi! - disse la neve.

- Cara neve, - spiegò Gelsomino - il fatto è che siamo tutti molto addolorati...

E tutti insieme le raccontarono di zia Elisabetta.

- Vi aiuto io! - disse la neve con voce dolce e rassicurante.

L'indomani la gente nelle case fu felice di trovare la neve. Qualcuno scese subito in strada per spalare e nelle case le mamme si misero ad accendere i camini, perchè faceva freddo. Ma, che strano, il fuoco non durava. Prova e riprova ma i camini non avevano la forza di far uscire il fumo che intanto riempiva le stanze. E fu necessario aprire la finestra, la porta. E questo non successe ad una sola famiglia, ma anche a quelle che abitavano in quella via.

Uscirono tutti sulla strada e tremanti di freddo cominciarono a discutere come risolvere quella strana situazione. Erano anni che non parlavano fra di loro perché ognuno pensava alla propria tranquillità. Così seppero, l'uno dell'altro, tante cose che non sapevano.

A un certo punto si accorsero che qualcuno mancava: la zia Elisabetta.

- Chi l'ha vista?

- Starà male?

- Sono mesi che non la vedo.

- Andiamo da lei!

Bussarono e bussarono alla porta. Poi una voce debole e fioca disse dal di dentro:

- Aspettate un momento, vengo ad aprire.

Zia Elisabetta arrivò con fatica fino alla porta e fu sorpresa nel vedere tutti quei vicini di casa. Lei era pallida, tremava di freddo.

- Cosa posso fare per voi? - chiese con un filo di voce.

-Siamo noi che dobbiamo fare qualcosa per te! - dissero.

E di corsa andarono nelle loro case a prendere legna, coperte, pane, dolci, uova, miele. Qualcuno prese anche un fiore per zia Elisabetta. Ed erano così occupati a pensare a cosa potevano fare per zia Elisabetta, che non pensavano più a loro stessi. E si ritrovarono attorno a zia Elisabetta, davanti al camino acceso a chiedersi perdono, a ridere, a cantare insieme.

Poi qualcuno chiese:

- Come mai qui siamo riusciti ad accendere il camino, mentre da noi...

- Altro che fuoco! - gridò qualcuno della casa accanto.

- E come tirano bene i camini! - esultava la signora Giorgina.

- Anche da noi! Venite a vedere che fuoco! - gioivano i dirimpettai.

In tutte le case scoppiettava felicemente il fuoco nei camini.

Cosa era successo? Era successo che la neve aveva coperto a tal punto i comignoli che il fumo non poteva più uscire, ma quando si accorse che l'amore era tornato nel cuore di tutti, chiamò in fretta il vento e si fece spazzare via, in alto. Il vento per la gioia e la commozione la fece volteggiare sulle case e con essa disegnò un magnifico cigno bianco che volò su tutti i tetti della via e poi si allontanò, chissà dove... forse per andare a raccontare ad altre città la gioia dei comignoli di Via del Cigno.





Illustrazioni di Magdalena Kuchtovà

Favola apparsa anche in:
Nove Mesto, Bratislava, novembre-decembre 2005
Uj Varos, Budapest, decembre, 2007

martedì 3 novembre 2009

Sulle braci della vita




L'ho notata subito nell'affollato ricevimento delle nozze di Elvira, mia collega di lavoro. Dopo essersi servita un sobrio antipasto si era seduta in un angolo e osservava assorta quello che succedeva nella grande sala dell'hotel. Si comportava come se stesse guardando un film. Sola, presente e assente. I suoi occhi, scavati dalla tristezza, erano addolciti da un'inconfondibile saggezza. Era elegante nei gesti, nel vestire, nel modo in cui sedeva. Emanava bellezza e mistero. Aveva un fascino raro.

Elvira mi aveva detto che Milena era una persona importante nella sua vita. Mi presentai. Le chiesi se gradiva qualcosa da bere. Le portai un Martini con ghiaccio. Intanto il piccolo complesso musicale degli amici dello sposo, aveva attaccato la canzone galeotta, Insieme, un successo di Mina.
Milena, per ringraziarmi della premura, mi chiese qualcosa di generico. Quando le dissi che avevo consacrato a Dio la mia vita, sgranò i suoi occhi, mi fissò e mi chiese: "Com'è possibile ipotecarsi tutta una vita per Dio?"
"Penso sia un atto di coraggio. E' maturato in me attraverso circostanze varie. Dal fondo dell'essere è salito in superficie prepotente, deciso, irresistibile. Un atto di coraggio che va riaffermato ogni giorno".
Milena sembrò allontanarsi per correre veloce chissà su quale binario. Poi tornando a me: "La vita, tutta la vita necessita coraggio, talvolta eroico".
Continuammo a parlare anche durante la cena.
"Un atto di coraggio - bisbigliò con un sorriso contenuto mentre guardava nei suoi ricordi. - Il mio grande amore fu un ingegnere romano, che era a Torino per il servizio militare. Un colpo di fulmine che scese nelle radici delle mie ossa. Dopo il congedo lui ritornò a Roma e io cominciai a pensare al nostro futuro. Già mi interessai ad un eventuale trasferimento. Non sembrava difficile. A quei tempi non c'era l'inflazione di insegnanti che c'è ora.

Da parte di Luciano, dopo infuocate lettere d'amore, di foto e promesse eterne, silenzio. Non sapevo cosa pensare. Allora i telefoni non erano come oggi e telefonare significava chiamare una famiglia che ancora non conoscevo. Insomma non ero sicura di poterlo fare. Con la scusa della scuola mi misi in viaggio per Roma. Lo cercai nello studio dove sapevo che lavorava.
Quando mi vide impallidì e, per la prima volta, gli vidi tremare le labbra. Non riusciva a mettere insieme una frase completa. Se non avessi saputo che i suoi erano cattolici, avrei pensato che Luciano era vittima di un maleficio. Non era più quello che io avevo conosciuto. Gli chiesi se voleva vedermi ancora. Ci demmo appuntamento per il giorno dopo.
Andammo ad Ostia. Mi sentivo abbastanza forte da sopportare uno che era divenuto improvvisamente un irritante sconosciuto. Dopo quasi un chilometro di camminata sulla battigia umida, Luciano scoppiò a piangere. Io no. Ero troppo ansiosa di sapere come stavano le cose. Mi confidò, senza mai guardarmi negli occhi, che tornando a Roma aveva rivisto una sua antica fiamma. Erano andati a letto insieme. La madre di lei, che in qualche modo aveva fatto da paraninfa, lo avrebbe denunciato se non avesse sposato la figlia.

Non so dove ho trovato la forza di fargli un sorriso e dirgi che piuttosto di vederlo finire in carcere, era meglio che scomparissi dal suo orizzonte.
Lo salutai rapidamente e tornai indietro senza voltarmi. Stavo scappando. Forse speravo di sentirmi afferrare dalle sue braccia che mi avrebbero svegliata dall'incubo. Sentii soltanto il mio cuore che stava scoppiando. Ripartii col primo treno che trovai. Ero sola nello scompartimento. Le lacrime trattenute sembrava bollissero dentro di me. Tutto divenne nero. L'aria si fece soffocante. Ricordo solo che mi sentii incapace di vivere ancora e corsi verso lo sportello del vagone. Frattura alla gamba e ad un braccio, ferite dappertutto, trauma cranico.
Mia madre mi guardava invelenita. Mio padre non venne mai all'ospedale. Nessuno si fece vivo. Era come se si fossero tutti coalizzati a farmi capire che meritavo una bella punizione. Rifiutai il cibo per giorni e giorni. Volevo morire. Non ebbi più niente da dire a nessuno.
Un giorno, dei medici che non avevo ancora visto, vennero a farmi delle domande. Non avevo niente da aggiungere al mio silenzio ormai abituale. Mentre andavano via urlai così acutamente che tutti tremarono. Finii in manicomio.
Forse per i sedativi che mi somministravano, non ricordo molto del mio primo periodo nel nuovo ambiente. Era come se mi svegliassi a poco a poco e mi rendessi conto di nuove cose: le finestre avevano grate, le porte venivano chiuse a chiave e le suore che si occupavano di me non avevano interesse a conoscere il mio pensiero. Non esistevo più. Sicuramente ci deve essere stata una crisi isterica perchè mi trovai legata su uno di quei letti di contenzione dove sei legato mani e piedi. Anche il mio braccio e la gamba ancora ingessate erano legate. Ero sepolta viva. Una crescente abulia si impossessò di me. Non fui più capace di reagire. Lo psichiatra, se veniva, si rivolgeva alle suore per chiedere di me, comandava quello che dovevano fare con me. Mai una domanda rivolta a me. Ero un corpo, un cadavere. Non avevo più un nome. Avevo forse un numero, lo zero.

Dopo mesi rirpresi a muovermi da sola. Camminavo un giorno nel corridoio quando mi avvertono che c'era una visita per me. Intravidi mia madre e qualcuno dietro di lei. Mi girai veloce verso la mia cella. Non avevo più parenti. E anche per loro era meglio così. Con il tempo nessuno più venne a trovarmi. Ero sola al mondo.
Grazie alla legge 180, nei primi del 1979 sono uscita dal manicomio. Tredici anni buttati al vento. Ma dal dolore, dalla solitudine si impara qualcosa che nessuno insegna. Poi, vedendo la crudeltà della mia famiglia, che pur di non essere disonorata da una figlia suicida, ha firmato per farmi credere pazza, ho capito la logica che sprona tanti a mettere le bombe. Distruggere per distruggere. Questa gente, come la famiglia dove sono nata, è una razza che disonora l'umanità.
Mi accolse una mia cugina, emarginata anche lei perchè ragazza madre. Era una di quelle che avevano fatto le battaglie nelle piazze. Tutta la sua vita era politicizzata. Si era così trovata ad educare un figlio, a dover lavorare per mantenerlo... Lei mi capiva. Mi fece dormire sul divano di un piccolo soggiorno finché non trovai un lavoro di badante che mi asssicurava anche il posto letto.
Quando morì la vecchietta che accudivo, la famiglia del figlio volle tenermi come collaboratrice domestica. Lui era avvocato e riuscì a far luce sulla mia tragedia. Attraverso di lui riuscii a riprendere il mio lavoro di insegnante e a trovare un appartamentino vicino a dove abitavano. Restammo sempre in rapporto ed Elvira, loro unica figlia, è cresciuta più con me che con i genitori.

Luciano si è rifatto vivo dopo 30 anni. Mi fece cercare attraverso il comune. Ci incontrammo al primo bar vicino alla stazione dove arrivò una mattina di inizio estate. Davanti a lui mi sentii come al manicomio. Senza parole. Mi chiese se avevo bisogno di qualcosa. Sarebbe stato meglio non udire quelle parole. Anche stavolta lo vidi piangere.
Seppi del suo infelice matrimonio naufragato presto, delle sue continue ricerche di me. Non so come aveva fatto a sapere che ero viva. Mentre lui attingeva speranza dal suo stesso raccontare, l'abisso tra noi diventava sempre più profondo. Ciò che distanziava le nostre esistenze era la nostra stessa fragilità.
Luciano piangeva. Stupito dalla mia indifferenza restò in silenzio. Come me. Quando mi alzai dal tavolino lui era convinto che avremmo continuato a vederci. Gli raccontai in due parole dov'era ridotta la mia esistenza. Lo salutai senza dare né chiedere recapiti. La città anonima mi avvolse nascondendomi allo sguardo esterrefatto di Luciano. Ora continuo a premere con tutte le forze sulla lapide del passato. I morti non bisogna mai risuscitarli".
Milena finì di consumare con eleganza quanto ci era stato servito. Il suo volto si illuminava solo quando intravedeva Elvira che girava felice tra gli invitati.
"Ho cercato di trasmetterle quel po' di saggezza che la vita, nella sua ferocia, mi ha dato".

Quando Elvira raggiunse il nostro tavolo, abbracciò commossa l'amica e rivolta a me: "Se non ci fosse stata Milena oggi non saremmo qui, non sarei mai sbucata fuori dal tunnel della droga. E' stata lei a insegnarmi a camminare a testa alta sulle braci della vita".


Apparso su Città Nuova, "La saggezza di Milena", 1/2008
Foto di T. Minuta