domenica 27 giugno 2010

Funambolo sognatore


Torno in treno da Budapest a Bratislava, nello scompartimento una coppia sta litigando. Non posso non sentire quello che dicono. La moglie accusa il marito di evadere dalla famiglia, lui accusa la moglie di essere troppo chiusa tra le pareti domestiche. Ho dell’acqua e gliene offro.
Lei rifiuta subito, lui invece accetta con gioia. Mentre prende il bicchiere di plastica che tremola assieme al treno, mi chiede scusa se mi hanno disturbato con la loro animata discussione.
Mi permetto di dire loro che una famiglia così ha tutte le condizioni della felicità e, parlando parlando, quando mi chiedono come vivo io le situazioni della vita, dico loro che mi aiuta l’idea di essere un funambolo sognatore, un equilibrista che avanza su una corda ben tesa. Se penso a tutte le volte che non mi è andata bene, se faccio paragoni, rallento il mio passo e rischio di cadere. Se comincio a pensare alla vincita, al successo accelero il passo e perdo l’equilibrio. La mia stabilità è tutta nel passo che sto facendo in quel momento e non devo distrarmi con paragoni e sogni.
Il marito, Imre, diventa serio. Ma anche lei, Kati, cade nel silenzio.
Poi Imre dice: “Forse il mio errore è quello di forzare continuamente mia moglie a fare passi  più grandi delle sue possibilità”. Lei interviene dopo un po’: “Ho cominciato a temere che a Imre non stesse a cuore la famiglia, e la difendo come se fosse un mio possesso. Stiamo correndo un bel rischio!”.
Imre e Kati si guardano. Si vede quanto si amino. Mi mostrano le foto dei bambini. Due splendidi ragazzini e una bambina, l’ultima arrivata, una copia del padre.
Kati tira fuori dalla borsa dei dolci fatti in casa e, mentre me li offre, dice a voce bassa: “Siamo dei funamboli. Non possiamo permetterci nessuna distrazione. Non per noi ma per quanti sono legati a noi”.
Quando il treno arriva a Bratislava, scendono anche loro, vanno a trovare dei parenti. Li indirizzo sul bus da prendere, regalo i biglietti.
Passo dopo passo vado verso la fermata del mio bus ed ho la sensazione di camminare sicuro sulla corda tesa della vita.   


lunedì 21 giugno 2010

Qualcosa succederà


Alessandro mi scrive augurandomi di non perdere mai il sorriso. Mi sono chiesto perché mi ha fatto questo augurio e prima di darmi una risposta ho pensato che forse era meglio chiedere a lui cosa volesse dire.
E mi ha risposto così.
“Una delle cose di cui abbiamo bisogno è che l’altro sia nella gioia. Forse perché incosciamente sappiamo quanto bisogno abbiamo degli altri. In te ho visto sempre un sorriso che comunica gioia di vivere.
Stamattina quando sono andato al lavoro, una collega mi ha fatto notare che ero serio e mi ha chiesto se mi fosse successo qualcosa. Ero soltanto in pensiero per gli esami che mia figlia deve sostenere all’università e l’avevo vista uscire agitata. Ma quell’osservazione mi fece ricordare che gli altri hanno bisogno della mia felicità. 
Mi è sembrato strano, ma dopo un po’ non ci ho più pensato. Apro il pc per cominciare il mio lavoro e mi arriva un PowerPoint con delle immagini straordinarie di fiori e volti di bambini. Mi colpisce una frase scritta sotto una diapositiva:  

Non sorridiamo perchè qualcosa di buono è successo ma qualcosa di buono succederà perchè sorridiamo”

L’avevo sentita questa frase, credo che sia un proverbio giapponese, ma leggerla in quel momento, con quello stato d’animo, mi ha dato una grande carica a mettere tutte le mie forze perché succeda soltanto il bene.
Io non so come funzionano queste coincidenze, tu ne parli sempre nei tuoi racconti, mi sembra di intuire che il sorriso è segno di equilibrio raggiunto. È forse il sigillo, il segno del compimento della vita. Mia madre, sul letto di morte, sembrava mi sorridesse. Sarà così?
Ti rinnovo l’augurio con più forza ancora”.
 


E questo augurio di Alessandro lo passo a voi “incoraggiatori” di questo blog.

foto di Attila Adam

giovedì 17 giugno 2010

Lasciati spingere dal suo vento!

 



Ciao Pierpaolo!
Grazie perché hai scritto e grazie a quanti hanno preso a cuore la tua vicenda.
Ho aspettato a risponderti per lasciare spazio ad altri di dirti qualcosa.
E sono arrivate delle risposte sia nel blog che via e-mail.
Quelli che hanno scritto direttamente a me manifestano la difficoltà di perdonare. Qualcuno addirittura afferma che fare del male a chi fa il male è giusto, visto che spesso nessuna istituzione interviene.
Non vorrei aggiungere altro se non una piccola considerazione: il perdono è un’azione che non sappiamo compiere da soli. Abbiamo bisogno di  un’altra libertà, una forza che superi la nostra idea di giustizia. Ci vuole un “Amore più grande” che sa comporre in noi una giustizia che oltrepassa paure, interessi e leggi. Sveglia in te l’Amore più grande e "lasciati spingere dal suo vento", come mi augura una lettrice del blog che mi ha mandato la barchetta della foto. Ciao! 
                                                                                   Tanino



foto mia

sabato 12 giugno 2010

Ti scrivo perché...


Caro Tanino,
ti scrivo perché ho letto il tuo racconto “Una finestra per rivedere le stelle”(1) che mi ha fatto riflettere. Il tuo racconto è solare, direi che il dramma sfocia in una soluzione non scontata. Eppure mi ha lasciato l’amarezza di non capire se questa è vera giustizia o rassegnazione impotente. I cristiani parlano di perdono. È difficile perdonare e non so se è giusto. Non ti scrivo per avere risposte ma soltanto per parlare con te. Sono disorientato e spaventato. Mia madre, molto anziana, è stata derubata da due “non italiani” che l’hanno ferita e lasciata a terra traumatizzata. Poteva succedere il peggio se i vicini non avessero sentito gridare. La polizia è arrivata presto. Come cancellare ora la paura, il senso di vivere in un mondo cattivo?
I preti predicano accoglienza e amore verso tutti, i politici, secondo la possibilità dei consensi, sbandierano soluzioni mentre sbirciano il depliant di un’isola-paradiso dove meritano di riposare per la fatica di servire il popolo.
La droga, la prostituzione, le rapine che ci porta “il fratello” che accogliamo è colpa nostra? Non abbiamo dato immediatamente case, lavoro e assicurazione? Magari togliendolo ad altri?
Sì, lo so anche noi italiani siamo stati emigranti…  Non ci vedo chiaro.
Se un giorno potessi incontrarti, vorrei guardarti negli occhi e provare la tua resistenza ai miei dubbi. Sei convinto che la vita sia così semplice? Sei certo che il perdono sia possibile? Gli uomini sono tutti “fratelli”?
Sono stato educato in una famiglia cristiana. Mi sono allontanato da un certo giro di pensieri perché qualcosa non mi quadrava. Oggi più che mai sto bene lontano da ogni mistificazione della vita e da ogni manipolazione.
Mi sono inoltrato nel tuo blog dietro segnalazione di un’amica che segue quello che scrivi. Affascina la tua vita e come risolvi le cose. Io raccoglierei i fatti che racconti e li farei discutere nelle scuole, tra i giovani. I grandi non pensano. Io sono un “grande” ma vorrei piangere.
Scusa lo sfogo, mi ha fatto bene parlarti. Auguri!
                       
                                                               Pierpaolo
1)    Vedi Città Nuova  Online 06-08-2009  
Foto mia: pozzanghera

giovedì 3 giugno 2010

Costa così poco...

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Sono con degli amici in una pizzeria di Bratislava. Da un tavolo di fronte a me, un anziano mi fa un sorriso, si alza con un po’ di fatica e viene deciso verso di me. Mi saluta calorosamente, mi abbraccia chiamandomi Vlado, diminutivo di Vladimir.
Gli dico non sono Vlado, che mi sta scambiando per un altro.
Ma lui: “Non scherzare, sono Michal, non ti ricordi? Eravamo militari insieme a Brno”. Gli dico che è impossibile, che sono italiano, che a Brno ci sono andato soltanto come turista. Anche come età qualche differenza c’è.
Lui diventa triste. Poi, incoraggiato da un mio sorriso, riprende il filo dei ricordi. “Ti cerco da tanto tempo. Mi hanno detto dove abiti e tutte le volte che con il treno passo davanti a casa tua, vedo con gioia il giardino, gli animali. Cos’hai fatto in tutto questo tempo?”.
I miei amici sono attenti ad ascoltare cosa sto per raccontare. Siccome la pizza non è ancora pronta, propongo a Michal di fare due passi in terrazza per parlare. Stavolta oltre agli amici anche l’uomo al tavolo di Michal, probabilmente il figlio perché gli somiglia, ci guarda curioso.
Michal mi racconta tanti fatti ed io li vivo con lui. Quanti camerati che ora sono già morti, ed io mi addoloro con lui. Quando mi parla della sua famiglia, dei figli, dei nipoti la sua gioia e la mia si confondono. Michal ride fino alle lacrime ricordando qualche commilitone ed io mi diverto con lui anche se non so di chi stia parlando. Nel suo volto la serenità lo ringiovanisce. A un certo punto ci raggiunge l’uomo che Michal mi presenta come il terzo figlio. Lui ascolta per un po’ e quando il padre gli dice quanti momenti abbiamo vissuto insieme, mi guarda preoccupato.
Mi avvertono che la pizza è in tavola e Michal, rattristato, mi chiede quando possiamo incontrarci. Gli prometto che andrò a trovarlo a casa.
Con gli amici scoppia una vivace discussione. Perché hai imbrogliato quell’uomo? Lo hai illuso. Un altro risponde al mio posto che se per Michal credere di aver ritrovato un amico è una gioia, perché negargliela? Mentre li vedo accalorarsi sul perché e per come, divento estraneo alla discussione e ne approfitto per uscire in terrazza, nel silenzio. Da lì vedo arrivare in macchina il figlio dell’amico “ritrovato”.
Mi raggiunge per dirmi: “Erano anni che non vedevo mio padre così felice. L’ho accompagnato a casa dove c’è una persona che lo assiste, ma praticamente non parla con nessuno. Mio padre è gravemente malato. Per lui sapere che ha ritrovato un amico è meglio di una medicina. In macchina continuava a dire che quando si è alla fine si ha bisogno di avere vicini gli amici!”.
Quando il giorno dopo Michal mi telefona, gli chiedo particolari dei nostri compagni d’armi. E lui continua a chiedersi: “Perché non ti ho ritrovato prima?”.   

Paesaggio di Maurizio Mosconi