mercoledì 24 febbraio 2010

Il coraggio del silenzio

Caro Tanino,
chissà se ricordi che diversi anni fa durante una conferenza sei stato fortemente avversato da qualcuno che con una frase ha distrutto tutto il tuo discorso.
Mi aspettavo da te una reazione che avrebbe chiarito meglio le tue posizioni. Tu, invece, sei rimasto in silenzio. Quel comportamento mi è rimasto dentro più come domanda che come esempio positivo.
Ora ti ho ritrovato nel tuo blog e mi rendo conto che sai quello che vuoi. Perché quella volta hai taciuto?


La risposta l’ho avuta oggi. Sono stato a trovare un collega in ospedale. La cosa strana è che questo collega, sempre battagliero, sempre in prima fila, oggi mi è sembrato un altro. Non per la tragedia della malattia che lo consuma, ma è come se fosse cambiata la sua visione del mondo. Mi ha detto soltanto che la vita ha dei risvolti che ti lasciano senza parole e che ci vuole coraggio a tacere. 
Mi sei venuto in mente e ho capito in un lampo che ci vuole più coraggio a tacere che a gridare. Dopo anni, ti arriva il mio grazie.
Vincenzo

foto di Mario Garcete: Cuadrodeluz

lunedì 22 febbraio 2010

La mia guida


a Chiara


Strada in salita
ero già stanco
il passo era stato veloce
mi ero fermato
a raccogliere forze
la strada che percorrevo
si perdeva in molte stradine
ogni sentiero una promessa
un sogno, una bellezza
sull’erta ti ho incontrata
mi hai suggerito il sentiero
quello più aspro
l’unico sentiero che porta alla Bellezza
assicurandomi che sempre
saresti stata accanto
si fece sera
il buio mi convinceva a tornare indietro
a riprendere strade conosciute
la tua voce mi ha sussurrato
non voltarti indietro!
la notte cancellò sentieri e cieli
l’eco della tua voce
batteva con il mio cuore
improvvisamente poi
tante lucciole corsero
ad accogliermi
sprizzavano luce viva
no, non erano lucciole
erano stelle.



Olio di Marek Trizulljak

venerdì 19 febbraio 2010

Chi può definire l'amore?


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Ero anch’io un invitato al matrimonio che i genitori di Lorena avevano organizzato non badando a spese. Forse per dimostrare alla figlia di non essere più contrari alla sua scelta di un ragazzo che a loro non era mai andato a genio.
Ero ancora in casa dei parenti che mi ospitavano, quando mi arrivò una telefonata. Il matrimonio non ci sarebbe stato perché lo sposo non si era presentato.
Raggiunsi la famiglia della sposa. Credo che la morte di qualcuno non avrebbe provocato la disperazione che ho trovato in quella casa.
Lorena non si sapeva in quale angolo si fosse nascosta. Il padre, mio amico, una persona conosciuta per la sua sicurezza e il suo buon senso, mi sembrò invecchiato di colpo. Non sapeva cosa dire. La madre gridava con voce afona. “Che possa morire la creatura che aspetti!” a cui il marito fa eco: “il figlio di un disgraziato!”.
Difficile capire qualcosa. Il fratello di Lorena, in disparte mi confidò che Rudy sarebbe risultato affiliato alla mafia di un certo paese e che non era quella la prima volta che veniva arrestato per traffico di droga. La polizia lo aveva fermato proprio mentre stava viaggiando per raggiungere la città della sposa.
Il fatto che nessuno dei parenti dello sposo fossero arrivati aveva destato qualche sospetto. Uscii da quella casa come se mi allontanassi da una sala cinematografica dopo aver visto un film di Hitchcock.
Pensai con tristezza a Lorena. La ricordai quando felice mi aveva presentato il ragazzo. Il suo primo grande amore. La chiamai per telefono. Lei rispose.
Aveva una voce logorata dal pianto. Non avvertivo rabbia ma sofferenza acuta, solitudine, incertezza.
Mi raccontò quello che già sapevo e aggiunse che lei era sicurissima che si trattasse di un errore. Le chiesi se aveva mai avuto qualche dubbio, se nel comportamento di Rudy avesse notato qualcosa di strano, di non chiaro. Lorena non mi rispose. Poi portò il discorso sulla creatura che sente crescere in lei, garanzia di un amore eterno. Le chiesi cosa pensasse di fare e mi disse che appena il padre si sarebbe calmato, lei sarebbe andata da Rudy.
Sono passate due settimane. Mi arriva una lettera da Lorena.
«Tu non puoi capire. Anche se ora sono in un mare di angoscia, sento che il mio amore è capace di accogliere Rudy, anche se mi avesse ingannata. Come fai a non credere all’amore? Vedrai che l’avvocato sistemerà tutto. Eppure qualcosa dentro di me improvvisamente mi terrorizza. Mi avrà mentito? No, non è possibile. È troppo vero il suo amore. La creatura che ci lega per sempre è la parte migliore di noi. Vivremo per lei. La notte non dormo tranquilla. Incubi tremendi mi soffocano. Mordo il cuscino. Non voglio che i miei sappiano che sono sull’orlo del crollo totale. Mia madre è accanto a me ma da quel giorno è crollata. Non ha detto più una parola. Mio padre è preoccupato piuttosto della vergogna che ha distrutto la sua famiglia che di me.
Non so cosa dirti. Mi sento ai margini della vita. Voglio che la nostra creatura sia il fiore più bello di tutta la nostra famiglia».

Foto mia
   
  

mercoledì 17 febbraio 2010

Dietro il caso Dio sorride




Grazie Nicodemo!
Grazie sostenitori!








Ti ho raggiunto attraverso il tuo blog, nicodemodinotte, e mi hai risposto alla velocità della luce dicendomi una frase che non mi lascia indifferente: “trovo interessanti i tuoi scritti perché parlano di un vangelo letto e vissuto, e quindi sono molto veri…”. Grazie, Nicodemo, perché mi hai costretto a rileggere la cartella con quanto mi scrivete voi lettori. E trovo te, Nadia, che mi dici: “… mi ritrovo con l'anima piena ed il cuore più caldo. Le tue esperienze riescono a trasmettere l'essenziale, che non sempre è il risvolto o l'esito positivo e vincente, anzi, spesso è proprio nelle storie che paiono un po’ sospese che scopro il tocco e l'amore di Dio Padre”.
E tu, simpaticissima Rita, che “da miscredente di quello che raccontavi, sono diventata una tua fan” mi ringrazi perché “aiuti anche me e a vedere le cose con occhi nuovi”.
Alfredo, amico ritrovato attraverso il blog e tra i primi sostenitori, mi scrivi: “Ogni qualvolta entro nel blog è per me un estraniarmi dalla vita frenetica di tutti i giorni ed entrare in un’altra dimensione. Bersagliati ogni giorno dai mass media con messaggi di ogni tipo, nel blog ritrovo quella serenità che mi aiuta a rimettermi in Dio”.
Un altro amico ritrovato, sei tu Paolo che mi riveli: “Sto seguendo il tuo blog e, proprio leggendo te, ho fatto una cosa che da tempo avevo in programma, e mai partiva: un blog, abbandonata, centrato sulla realtà che vivo, insieme a tanti, troppi, anche se siamo in crescita esponenziale: la separazione, il divorzio, la solitudine”.
Anche una frase tua, Vittorio, mi fa pensare: “Non è facile conoscerti, credimi!”.
Alessandra, tu mi ringrazi per il mio ‘sì’, e tu, sapiente Sandro, mi esprimi riconoscenza “per quanto scrivi, ma soprattutto vivi”.
Ilenia carissima, mi confidi: “ogni storia mi lascia sempre qualcosa dentro”.
Luigi, proponendo una mia esperienza ai lettori del tuo blog Essere sempre famiglia, scrivi: “Quando racconta, nel periodo del suo insegnamento in un ateneo ungherese, che poteva essere ‘spiato’ anche dagli stessi studenti, vedo in lui quel ‘bambino evangelico’ che trova la ragion d'essere nell'amore verso tutti. La lezione per me è chiara: chi ama, chi è nell'amore, sa che può affrontare ogni situazione”.
Da un altro blog, Il volo dell'albatros: „Avevo una domanda che mi girava in testa da un pò di giorni e una risposta che non arrivava. Oggi, per puro caso (ma il Caso, si sà, non esiste!), sono capitata su un blog... e ho trovato la mia risposta.
Il blog è quello di Tanino Minuta (che ringrazio per il suo involontario, ma preziosissimo aiuto!) e questa è la risposta: Lascia segnare il tuo tempo dall’amore e ogni attimo della tua vita sarà un capolavoro”.
E io per ringraziarti ti cito un verso del poeta ungherese László Mécs: Dietro il caso, Dio sorride.
Anna invece: “Sì la tua scrittura eleva così tanto lo spirito che, leggendo, si vola, si vola molto in alto!”
Amedeo puntualizzi “…traspare la luce che hai scoperto con la quale ora riesci a leggere le cose, gli avvenimenti, le situazioni, le persone e tutto si illumina di questa luce”.
A questo punto ritorno alle tue parole, Nicodemo. Tu deduci che la verità delle mie esperienze nasca dal “vangelo letto e vissuto”.
Sì, Nicodemo, tradurre in vita quotidiana le parole di Gesù è per me come mettere gli occhiali da vista e vedere più precisamente il gioco dei fatti, le coincidenze, i legami tra un fatto e un altro, tra un incontro e un altro, è una chance che mi viene offerta, una scuola per imparare la difficile e stupenda arte del vivere.
Il regista invisibile è anche un insuperabile maestro.
Grazie per il grande sostegno, anche ai lettori che non ho citato.

La foto è mia

domenica 14 febbraio 2010

Rimane soltanto l'aver amato

 
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Maria cominciò così il suo racconto: «Un giorno cercavo tra gli annunci di una rivista qualche offerta per un conoscente rimasto senza lavoro e, tra mille offerte, mi colpisce la foto di qualcuno che sta cercando l’anima gemella. Un signore di mezz’età, distinto, di una tristezza pesante e uno sguardo buono. Giorgio si descrive geloso, possessivo, in cerca d’amore… Non rimasi indifferente a quegli occhi tristi».
La conosco da quando frequentavamo l’università a Roma e ora l’ho rivista dopo quasi trent’anni, nel corridoio di un ospedale di Firenze, dov’ero andato a trovare un parente. Non più giovane ma sempre bella, dignitosamente elegante, senza niente di superfluo. In un bar vicino all’ospedale seppi della sua vita.
«Giorgio rispose al mio messaggio e dopo vari scambi per via elettronica e qualche telefonata capimmo che era arrivato il tempo di incontrarci. Lui, per il suo lavoro, non poteva allontanarsi dal suo paesino e mi chiese di raggiungerlo.
Il ristorante dove ci sedemmo non era lontano dalla pensione che mi aveva prenotato. Lasciai ordinare a lui. Aveva gusti semplici, come me. Per il vino fui io a decidere, e non era difficile dato che eravamo nel territorio del Chianti.
Improvvisamente mi trovai senza parole e tale fu Giorgio. Mi ero già resa conto, dalla concisione delle sue comunicazioni e dai silenzi durante le telefonate, che era un tipo di poche parole. Ma ciò che fu strano è che la mia testa, così ricca di idee e fantasia si trovò del tutto in bianco.
“Vedi, Giorgio, mi sembra di non sapere più perché io sia venuta qui. Il fatto che tu esisti è come se scomponesse un sogno che ho gestito da sola, una storia che mi sono costruita io, qualcosa che faceva parte della mia vita, dei miei sogni, dei miei possessi. Quel Giorgio che mi ha accompagnato finora abitava nella mia casa, nei miei sogni, nelle mie abitudini. Ed ora?  Stai davanti a me …!
È pesante lo spessore della solitudine che da anni si stratifica su di me.
Dopo l’incidente che ha strappato da me marito e figlia, non so cosa significhi essere amati. Sono piena di incertezze. Finché ero in viaggio per venire qui non avevo certi pensieri, ma ora …”.
Il giorno dopo, quando venne a prendermi alla pensione, ero già pronta. Una delle glorie della Toscana, sono i paesini adagiati sulle colline. Giorgio guidava bene, senza fretta. Gli occhiali da sole gli stavano bene. Gli dissi che, nonostante tutto, quell’inserzione che aveva fatto nella rivista non la capivo. Anzi gli dissi che cominciava a darmi fastidio.
“Eppure ci ha fatti incontrare!”.
“Sì, hai ragione. Ma che bisogno avevi di metterti così in mostra? Di gridare ai quattro venti che sei geloso, possessivo, romantico? Volevi trarre nella trappola qualche colomba solitaria?”.
Giorgio si tolse gli occhiali per guardarmi meglio o per farmi vedere che era stupito dal tono delle mie domande.
“Cara Maria, abbiamo storie diverse. La tua è lineare, pur con le scosse tragiche che ti hanno fatta rinchiudere in una torre d’avorio. La mia è movimentata. Molto movimentata. Ho scritto quell’annuncio quasi come un automa. Fu durante le feste di Natale. Una solitudine feroce. Nel mio paesino tutto è circoscritto. Sappiamo tutto di tutti. Pur stimato per il mio lavoro, non sono ben visto per il mio passato da sessantottino ribelle. La generazione degli attuali padri non mi ha mai perdonato un tentato attacco terroristico dove mi hanno implicato. La generazione dei figli non mi calcola. Faccio parte del passato. Come i vecchi monumenti. Servono soltanto ai colombi. Sono stato in carcere. Ho scontato una colpa non mia. Uscito dalla prigione mi sono ritrovato nel deserto, non avevo più né amici, né parenti.
Mi impiegai in banca perché era il posto di mio padre e da allora vivo come un beneficiato. Sono stanco di essere beneficiato. Cerco l’amore non la beneficenza. Vorrei amare ed essere amato. Ai tempi del fattaccio, la compagna che mi aveva giurato amore eterno svanì nel nulla. Il padre, con tutti i soldi che ha, l’avrà fatta disintossicare e poi l’avrà sistemata con un matrimonio di rango. Sono passati gli anni. Non spero più. Spio la vita e sto a sbirciare se è capace di sorprendermi. Le parole che la gente dice non le capisco. Ormai vivo in terra straniera e non so se esiste una patria. I telegiornali sono insopportabile fantascienza. Ho visto passare la mia vita, non ho nessuno con cui vendicarmi. Tutti siamo innocenti, tutti siamo vittime!”.
Il volto di Giorgio si solcò di rughe di sofferenza e lo vidi guardare avanti, lontano. Mi assalì la paura che si allontanasse anche da me. Sentii di amare quel profilo sicuro mentre il paesaggio che lo inquadrava passava veloce. Le pupille verdi quasi nascoste dalle pesanti palpebre mi apparvero ancora più misteriose. La mia compassione divenne presto commozione. Gli presi la mano destra. L’aprì con  delicatezza.
Mi fece capire che era contento e grato.
Fu una giornata di gioia. Cominciò così quello che oggi posso dire un grande amore. Ci sposammo nel giro di sei mesi.
Poi una mattina mi hanno avvertito che era stato portato in ospedale per un improvviso malore. Lo raggiunsi, superando ingiuste barriere, in sala di rianimazione. Un’emorragia grave, purtroppo segnale di qualcos’altro.
Mi prese la mano con la sua delicatezza e mi ringraziò.
Dopo qualche giorno si è ripreso al punto che poteva stare nel reparto chirurgia. Avevo saputo che il tumore al colon aveva delle serie metastasi. Ne parlammo apertamente con Giorgio. Quel pomeriggio l’intero ospedale divenne la nostra casa. Eravamo noi la casa.
“Sai, Maria, ho vissuto questi tre anni con te in una continua luna di miele. Tu hai investito tutto su di me. Hai lasciato il tuo lavoro, la tua casa, la tua città. Hai messo in secondo piano le amicizie, le tue letture, tutto il tuo mondo. Ho provato l’ineffabile gioia di essere unico e necessario a qualcuno. Non hai mai fatto paragoni con tuo marito. Così giorno dopo giorno ho cominciato a guardare la realtà con occhi benevoli. Mi hai fatto rientrare nel giro dei parenti, anche gli amici sono tornati. Il dono prezioso che mi hai fatto è d’avermi aiutato a scoprire che gli altri hanno bisogno di me”.
Il suo sguardo oltrepassò la stanza e si disperse nel cielo grigio. Ero distratta dall’acerbo dolore di sapere che Giorgio aveva i giorni contati. Ma ero davanti all’uomo che aveva saputo tirami fuori dal pozzo del passato. Fissandolo negli occhi avrei voluto dirgli non so quali parole. Giorgio è un uomo felice».
Maria con me stava piangendo. Restai in silenzio. In certe occasioni le parole non si aggrappano al pensiero.
«Ricordi quando una volta ti dissi che non mi sarei mai sposata per non infossarmi nella tradizione borghese? Ricordi che ti dicevo che la nostra generazione sessantottina sarebbe stata quella che avrebbe illuminato passato e futuro? Che dovevamo cominciare a calcolare le epoche partendo dalla nostra? Quante cose insegna il tempo! Per fortuna lascia sbiadire e morire tutte le parole che diciamo. Rimane soltanto l’aver amato».
Si allontanò, senza voltarsi, verso la fermata del bus. Sempre dignitosa e nobilmente libera. Quando la rividi ai funerali del marito la trovai ancor più nobile. L’amore di Giorgio era visibile in lei. 

Foto di Maurizio Mosconi
Già apparso su CN n° 24/2007

sabato 13 febbraio 2010

L'attrattiva del tempo moderno

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Ecco la grande attrattiva
del tempo moderno:
penetrare nella più alta contemplazione
e rimanere mescolati fra tutti,
uomo accanto a uomo.
Vorrei dire di più: perdersi nella folla,
per informarla del divino,
come s'inzuppa
un frusto di pane nel vino.
Vorrei dire di più:
fatti partecipi dei disegni di Dio
sull'umanità,
segnare sulla folla ricami di luce
e, nel contempo, dividere col prossimo
l'onta, la fame, le percosse, le brevi gioie.
Perché l'attrattiva
del nostro, come di tutti i tempi,
è ciò che di più umano e di più divino
si possa pensare,
Gesù e Maria:
il Verbo di Dio, figlio d'un falegname;
la Sede della Sapienza, madre di casa.

Chiara Lubich, Meditazioni
Vetro di Marek Trizuljak

martedì 9 febbraio 2010

Lo sai che Dio ha dei grandi disegni su di te?


La città della Sicilia dove sono nato testimonia fortemente il suo passato di colonia greca, di città romana, araba, normanna, spagnola. Si chiama Agrigento. Il clima è mite. 
I mandorli fioriscono prima che il calendario dica che è primavera. Fra i templi greci innalzati a Ercole, a Giunone, a Zeus, ai Dioscuri, ai piedi del tempio della Concordia, superbo dei suoi due millenni e mezzo di storia, quella distesa di mandorli in fiore è il tappeto del sortilegio di una valle che con la sua bellezza lancia in ogni stagione una nuova sfida al tempo.
I miei genitori hanno educato mio fratello, me e la mia sorella in un clima di grande amore. Siccome mio padre e mia madre provengono da famiglie numerose, i cugini, gli zii sono tanti e questo ha reso la nostra famiglia grande e vivace anche perché la nonna paterna abitava con noi. Nella mia città ho frequentato il liceo classico che mi ha visto coltivare i pensieri e i sogni del futuro.  
Ero in prima liceo, quando un concorso indetto dalla diocesi, aveva come tema da svolgere “Come può l’uomo di oggi arrivare a Dio?”. Quella domanda me la posi non solo per scrivere il componimento ma per capire se esisteva una strada per andare a Dio. In base alla mia esperienza scrissi che secondo me l’unica strada per arrivare a Dio, oggi come in ogni tempo, è il dolore. Avevo infatti notato che quando un dolore mi buttava a terra, quando una circostanza contrariante mi metteva al muro, la forzata o rassegnata accettazione di quel dolore, di quella circostanza, in qualche modo mi faceva respirare aria nuova e avevo sperimentato sempre anche una certa libertà. Praticamente nel dolore sentivo battere il polso della vita. Fui vincitore del concorso. Ma il premio non mi esaltò. Piuttosto mi fece dedurre che il mio pensiero era giusto.
Dopo qualche tempo, attraverso una serie di combinazioni vengo a conoscenza dei focolarini. Gente speciale. Trovo in loro una limpida corrispondenza tra quello che dicono e quello che fanno. Gente che ha un tale rapporto con la realtà, con Dio, che mi incuriosisce. Il tipo di intesa che avevano tra loro e che stabilivano con tutti era come un bene da sempre cercato e fui certo che con loro potesse prendere vita una parte della mia esistenza che rischiava altrimenti di atrofizzarsi.
Mi interessa la loro amicizia. Se ne rendono conto anche loro. Da Caltanissetta, dove avevano il “focolare”, ben presto tornano a trovarmi ad Agrigento, la mia amatissima città.
In una di queste occasioni Mariano Gerbaudo mi raccontava della sua vita, della sua passione per il jazz, simile a quella per le scalate in montagna e di come fosse stato folgorato a un certo punto da qualcuno che lui sentì più autentico di ogni altra aspirazione. Poi improvvisamente, senza una connessione logica con quello che mi stava raccontando, ferma il suo passo, mi guarda negli occhi e mi dice : "Tanino, tu lo sai che Dio ha dei grandi disegni su di te?"
Una frase fuori contesto. Insolita. Direi strana. Eppure mi sconvolse. Quelle parole oltrepassarono in fretta la ragione raggiungendo lo spazio dove non servono spiegazioni. Entrarono nel cuore. Fu come se in quel momento ricevessi il dono della fede. Era l’estate del 1966. Fino a quel momento avevo di Dio le immagini e le paure del catechismo. Me lo raffiguravo come un burbero amministratore che alla fine della vita mi avrebbe presentato un conto, il bilancio sulla mia vita minuziosamente e puntigliosamente registrata.
Era l'Onnipotente, seduto su un trono lontano, che premiava chi aveva compiuto opere eroiche, chi aveva sopportato con gioia di essere bruciato vivo, chi si era prodigato per gli altri senza misura. Ma che avesse già un progetto su di me, che lui si fosse accorto di me prima che io avessi fatto qualcosa per lui, mi disorientava. Non mi sembrava neanche giusto un tale interesse verso di me, eppure quelle parole le sentivo vere. Furono la mia fortuna. Ebbi la sensazione di essere stato svegliato da un lungo sonno. Quelle parole le "conoscevo".
Mi vidi in relazione a un invisibile “qualcuno”, ma vero e vivo. Quel “qualcuno” era riuscito a dirmi il suo amore. “Dio mi ama!” gridai davanti al mare, dove andavo in quei giorni a confidare i miei pensieri.
Ero talmente preso da quest'idea che anche gli esami di maturità, sempre temuti, ora non occupavano più il primo posto della mia vita. Sono andato a fare gli esami pensando a quel qualcuno.

Tempio di Castore e Polluce, foto di G. Scozzari

domenica 7 febbraio 2010

Riparare e ricominciare



Nell’augurarmi una buona settimana, Francesco mi ha offerto un grande sostegno raccontandomi qualcosa che gli è successo. È d’accordo che io lo metta in comune anche con voi lettori del blog. E quindi il mio grazie a Francesco ora s’impreziosisce della vostra gratitudine. 

È accaduto tutto in qualche istante.
Una parola detta in un certo tono e la scintilla ha scatenato un parapiglia.
Una mattina come le altre. Mi alzo alle 6.20 e dopo essermi lavato, vado in cucina per far colazione. Guardo l'orologio. Non ce la faccio…
Dietro arriva mia moglie che con premura mi allunga un bicchiere d'acqua. L'acqua fa bene, depura l'organismo.
Il tempo è contato, il livello di guardia del mio self control, come il listino di questi giorni in Borsa,  sta precipitando.
Voglio farti notare che io bevo un litro e mezzo d'acqua al giorno e che sto perdendo il bus!”
È stato più forte di me. Esco e vado verso il bus con la tempesta dentro.

È fatta! Come un'auto che perde potenza quando c'è un buco nel serbatoio e perde la benzina, il mio serbatoio d'amore si è precipitatmente svuotato.
Mentre il bus mi porta in ufficio mi viene in mente una parola sentita recentemente: riparare.
E sì, occorre riparare.
Il tempo di entrare in ufficio, togliermi il soprabito e cerco di riparare.
Dall'altra parte molto ascolto e, come un'eco, una frase: ricominciamo.
Il minacciato temporale si allontana, nei nostri cuori ritorna il sereno.
Riparare e ricominciare.

Foto mia

mercoledì 3 febbraio 2010

Michele l'acrobata

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Non mi sarei immaginato di incontrarmi proprio con il clown-contorsionista-acrobata che ci aveva tenuti col fiato sospeso. Lui aveva ancora la sua crespa parrucca gialla, il naso a pallina rossa e sulla maglietta bianca, che ben mostrava il corpo di atleta, sfolgorava un papillon verde fosforescente dalle misure gigantesche. Si stava congedando da alcuni bambini che avevano voluto una foto con lui. Rivolto a me, chiese se volevo dargli la gioia di una foto insieme. Come dire di no?
Lui atletico, non alto, ma muscoloso, posa la sua mano sulla mia spalla e mi sembra di sostenere la zampa di un elefante. Quando seppe che ero italiano mi chiese di dargli qualche lezione basilare della mia lingua. Furono queste le occasioni per venire a conoscenza della vita di Mihàly, che qui chiamo Michele.
“Come mai mi sono messo a fare questo mestiere? Sì, è vero un acrobata nasce nel circo. Ma io non sono un figlio d’arte. Mio padre era insegnante di scuole elementari in un villaggio della grande Pianura Ungherese. Durante il comunismo se non eri del partito e se non dichiaravi di non entrare più in chiesa, non potevi avere un posto di insegnante. Secondo il programma comunista per formare gli uomini nuovi ci volevano uomini nuovi, non condizionati dall’oscurantismo della religione. Il comunismo era un grande progetto di progresso. Mio padre era credente ma preferì non perdere il posto di lavoro e in famiglia l’argomento religione divenne tabù. Mia madre ne soffrì ma lo stipendio di mio padre contava più di quello che riceveva lei, commessa di un magazzino di vestiti. Ed eravamo tre figli. Quando, per le superiori mi trasferii in città, le cose cambiarono. Potevo leggere, informarmi senza paura. Siccome bisognava essere prudenti, tirai la conclusione che avrei dovuto parlare non con parole ma con il mio stesso corpo. Fu un orizzonte nuovo che mi si prospettava. Penso che fu in quel contesto che divenne chiara la mia vocazione: volevo predicare senza parlare. Sin da piccolo sapevo fare i salti mortali, camminare su una fune, insomma facevo giochi pericolosi. Mia madre diceva che ero smontabile. Una sera, ad una festa dove facevo l’istrione, mi venne offerta la possibilità di lavorare in un circo. All’inizio fu una sostituzione, poi divenne un lavoro stabile. E io avevo bisogno di soldi. 
Ho inventato dei numeri che fossero delle gag. Contava non solo la mia agilità felina ma le smorfie del mio volto, i silenzi, i passi fatti bene, le cadute perfette, i salti mortali. Giorno dopo giorno sentivo in me aumentare la forza, non tanto di combattere quel comunismo degenerato in mafia di stato, quanto mostrare alternative di libertà. Quindi anche ciò che faceva ridere doveva essere originale. Ho cominciato ad avvicinarmi fisicamente di più al pubblico, farmi toccare, farmi vedere da vicino, far scoprire i trucchi, insomma a puntare tutto sul rapporto diretto con il pubblico. L’unica cosa che avevo da clown era il naso, la parrucca rossa e il papillon. E i bambini questo naso me lo tirano, lo fanno rimbalzare,  lo provano. La parrucca se la mettono, ci giocano… La maglietta aderente fa meglio vedere il contrasto con un papillon fosforescente che li fa impazzire.   
Sacro diventa quindi il rapporto con il pubblico che diventa lo specchio dove vedo me stesso, misuro le mie capacità. Donandomi agli altri ritrovo la mia unità interiore e nello stesso tempo mi conosco”.
Mentre Michele parlava mi venne in mente un fatto di qualche sera prima e glielo raccontai. 
“Dopo una giornata pesante ero entrato in una chiesa. Soltanto il vestibolo era illuminato. Per pregare potevo restare lì. Il resto della chiesa era chiuso da altissime vetrate oltre le quali il buio era totale. Guardavo verso l’interno della chiesa cercando la lampada del Santissimo e dirigere lì il mio ascolto ma non vidi altro che il mio volto riflesso perfettamente sul vetro. Tra il noto e l’ignoto c’era una vetrata che mi rispecchiava. Cercai di oltrepassarmi ma una forza quasi mi costrinse a fermarmi. Nel silenzio quel volto che mi guardava stupito sembrava mi dicesse che chi cercavo era già in me. Quando tornai a camminare per le strade avvertivo che qualcosa era successo. Ero io ma non ero più soltanto io, c’era un entusiamo antico e nuovo”. Michele mi ascoltò con attenzione. E non dicemmo altro. In silenzio ci sedemmo in un bar, bevemmo il caffè. Guardavamo in giro senza vedere niente. Nessun rumore poteva raggiungerci. Alla solita uscita del metrò ci salutammo consapevoli che il dialogo tra noi non era finito. Qualche giorno dopo Michele mi cercò all’università, aveva in mano un foglietto e mi raccontò: “Una sera lo spettacolo fu perfetto. Grande successo. Tornato nella mia roulotte ascoltavo i passi della gente che tornava a casa. Avevano il ritmo della gioia che avevo loro comunicato. Ma io ero svuotato. Non fui più sicuro di quale fosse il centro della mia vita. Di colpo mi resi conto che il centro dell’esistenza non sono io, non sei tu, ma è l’Amore e scrissi su questo pezzo di carta:  
Ti cerco ma non so il colore dei tuoi occhi 
Ti amo e non so se è amore 
Dove sei?  
Le lacrime non si rassegnano  
Diventano pioli di una scala di stupore  
Raggiungo la vetta del cuore  
Qualcuno mi abita  
Da lungo lungo tempo 
Sei tu!

 Illustrazione: Arcabas, L'ange espiègle

lunedì 1 febbraio 2010

per Leonardo

Ricevo da Luisa, un'instancabile sostenitrice del blog, quello che lei direbbe a Leonardo (vedi  "La paura di essere dei re"). Ringrazio l'amica e Leonardo.
...
Ecco, avrei voluto dire a Leonardo che la sua vita "suona" molto bene; che il suo disagio vitale è un gran segno di ricerca della luce che è in lui ed attende solo di essere accesa dal coraggio di rischiare per accettare il mistero di questo "io" così inquieto come quello di tutti gli altri, chiuso in una meravigliosa industria termodinamica che è il nostro corpo, e di questo mondo che sembra assurdo e folle e a tratti così stupendo da commuoverci.


Vorrei spiegargli che il solo fatto di essere così colpito e inconsciamente anche un po' seccato che qualcuno, come te, continui a fidarsi del cielo e della terra, degli uomini e delle cose ed anche dell'impossibile, rivela che è una persona molto sensibile che aspira a guardare "oltre" ed a desiderare di andare al di là di ciò che si vede e che si tocca e di tutto il positivo che onestamente riconosce di avere ricevuto nella sua esistenza !
E allora gli avrei gridato: " ti prego Leonardo, spogliati della tua malinconia e dei tuoi rimpianti; guarda avanti e intorno a te le occasioni quotidiane di donare la tua attenzione ed i tuoi talenti a chi ti sta accanto, a coloro cui insegni, senza fare i totali finali, così come ti verrà spontaneo al momento!
Basterà questo per farti sentire motivato e vivo, grato e generoso, ed attirare affetti, sguardi grati e nuovi incontri amichevoli e fraterni. E via via che farai questa esperienza, sentirai che l'energia nuova e positiva che ti arriverà sarà un dono senza nome, ma più reale e gioiosa di ogni altra esperienza fatta finora. Poi, potrai darle il nome che vorrai, ma la sostanza non cambierà!"


Con tutti i miei auguri.
Luisa

Febbraio 2010




“Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv 10,9).



Mi è arrivato un power point. Tratta di un ragazzino che sale su un aereo da solo. Durante il volo l’aero, per disturbi atmosferici è in grosse difficoltà. Tutti hanno paura ma il ragazzino resta al suo posto come se niente fosse. All’hostess che gli chiede come mai è così tranquillo, lui risponde “Il pilota è mio padre!”

Ho spedito la storiella a una conoscente che ha una vita difficile. Questa la sua risposta: “L’unico valore della mia esistenza è che posso dimostrare cosa significhi allontanarsi dalla verità. Ho voluto la mia libertà, ho voluto affermare soltanto le mie ragioni, non ho accettato restrizioni di nessun tipo e son finita sulla strada a mendicare amore. La vita è una falsa promessa. I grandi sogni che nascono nella stagione della speranza sono incantesimi bugiardi se non passano per quella porta stretta. Ogni azione produce libertà o schiavitù. È un vortice che mi possiede e mi annulla. Come sarebbe bello essere come quel ragazzino tranquillo nella bufera. Un cliente mi chiedeva se sono stata mai felice. Una domanda umana che mi ha fatto piangere. Sì sono stata felice quando ascoltavo i suggerimenti di Gesù. Allora ero in accordo con me stessa. Ora non più”.


Foto di Attila Adam