L'ho notata subito nell'affollato ricevimento delle nozze di Elvira, mia collega di lavoro. Dopo essersi servita un sobrio antipasto si era seduta in un angolo e osservava assorta quello che succedeva nella grande sala dell'hotel. Si comportava come se stesse guardando un film. Sola, presente e assente. I suoi occhi, scavati dalla tristezza, erano addolciti da un'inconfondibile saggezza. Era elegante nei gesti, nel vestire, nel modo in cui sedeva. Emanava bellezza e mistero. Aveva un fascino raro.
Elvira mi aveva detto che Milena era una persona importante nella sua vita. Mi presentai. Le chiesi se gradiva qualcosa da bere. Le portai un Martini con ghiaccio. Intanto il piccolo complesso musicale degli amici dello sposo, aveva attaccato la canzone galeotta, Insieme, un successo di Mina.
Milena, per ringraziarmi della premura, mi chiese qualcosa di generico. Quando le dissi che avevo consacrato a Dio la mia vita, sgranò i suoi occhi, mi fissò e mi chiese: "Com'è possibile ipotecarsi tutta una vita per Dio?"
"Penso sia un atto di coraggio. E' maturato in me attraverso circostanze varie. Dal fondo dell'essere è salito in superficie prepotente, deciso, irresistibile. Un atto di coraggio che va riaffermato ogni giorno".
Milena sembrò allontanarsi per correre veloce chissà su quale binario. Poi tornando a me: "La vita, tutta la vita necessita coraggio, talvolta eroico".
Continuammo a parlare anche durante la cena.
"Un atto di coraggio - bisbigliò con un sorriso contenuto mentre guardava nei suoi ricordi. - Il mio grande amore fu un ingegnere romano, che era a Torino per il servizio militare. Un colpo di fulmine che scese nelle radici delle mie ossa. Dopo il congedo lui ritornò a Roma e io cominciai a pensare al nostro futuro. Già mi interessai ad un eventuale trasferimento. Non sembrava difficile. A quei tempi non c'era l'inflazione di insegnanti che c'è ora.
Da parte di Luciano, dopo infuocate lettere d'amore, di foto e promesse eterne, silenzio. Non sapevo cosa pensare. Allora i telefoni non erano come oggi e telefonare significava chiamare una famiglia che ancora non conoscevo. Insomma non ero sicura di poterlo fare. Con la scusa della scuola mi misi in viaggio per Roma. Lo cercai nello studio dove sapevo che lavorava.
Quando mi vide impallidì e, per la prima volta, gli vidi tremare le labbra. Non riusciva a mettere insieme una frase completa. Se non avessi saputo che i suoi erano cattolici, avrei pensato che Luciano era vittima di un maleficio. Non era più quello che io avevo conosciuto. Gli chiesi se voleva vedermi ancora. Ci demmo appuntamento per il giorno dopo.
Andammo ad Ostia. Mi sentivo abbastanza forte da sopportare uno che era divenuto improvvisamente un irritante sconosciuto. Dopo quasi un chilometro di camminata sulla battigia umida, Luciano scoppiò a piangere. Io no. Ero troppo ansiosa di sapere come stavano le cose. Mi confidò, senza mai guardarmi negli occhi, che tornando a Roma aveva rivisto una sua antica fiamma. Erano andati a letto insieme. La madre di lei, che in qualche modo aveva fatto da paraninfa, lo avrebbe denunciato se non avesse sposato la figlia.
Non so dove ho trovato la forza di fargli un sorriso e dirgi che piuttosto di vederlo finire in carcere, era meglio che scomparissi dal suo orizzonte.
Lo salutai rapidamente e tornai indietro senza voltarmi. Stavo scappando. Forse speravo di sentirmi afferrare dalle sue braccia che mi avrebbero svegliata dall'incubo. Sentii soltanto il mio cuore che stava scoppiando. Ripartii col primo treno che trovai. Ero sola nello scompartimento. Le lacrime trattenute sembrava bollissero dentro di me. Tutto divenne nero. L'aria si fece soffocante. Ricordo solo che mi sentii incapace di vivere ancora e corsi verso lo sportello del vagone. Frattura alla gamba e ad un braccio, ferite dappertutto, trauma cranico.
Mia madre mi guardava invelenita. Mio padre non venne mai all'ospedale. Nessuno si fece vivo. Era come se si fossero tutti coalizzati a farmi capire che meritavo una bella punizione. Rifiutai il cibo per giorni e giorni. Volevo morire. Non ebbi più niente da dire a nessuno.
Un giorno, dei medici che non avevo ancora visto, vennero a farmi delle domande. Non avevo niente da aggiungere al mio silenzio ormai abituale. Mentre andavano via urlai così acutamente che tutti tremarono. Finii in manicomio.
Forse per i sedativi che mi somministravano, non ricordo molto del mio primo periodo nel nuovo
ambiente. Era come se mi svegliassi a poco a poco e mi rendessi conto di nuove cose: le finestre avevano grate, le porte venivano chiuse a chiave e le suore che si occupavano di me non avevano interesse a conoscere il mio pensiero. Non esistevo più. Sicuramente ci deve essere stata una crisi isterica perchè mi trovai legata su uno di quei letti di contenzione dove sei legato mani e piedi. Anche il mio braccio e la gamba ancora ingessate erano legate. Ero sepolta viva. Una crescente abulia si impossessò di me. Non fui più capace di reagire. Lo psichiatra, se veniva, si rivolgeva alle suore per chiedere di me, comandava quello che dovevano fare con me. Mai una domanda rivolta a me. Ero un corpo, un cadavere. Non avevo più un nome. Avevo forse un numero, lo zero.
Dopo mesi rirpresi a muovermi da sola. Camminavo un giorno nel corridoio quando mi avvertono che c'era una visita per me. Intravidi mia madre e qualcuno dietro di lei. Mi girai veloce verso la mia cella. Non avevo più parenti. E anche per loro era meglio così. Con il tempo nessuno più venne a trovarmi. Ero sola al mondo.
Grazie alla legge 180, nei primi del 1979 sono uscita dal manicomio. Tredici anni buttati al vento. Ma dal dolore, dalla solitudine si impara qualcosa che nessuno insegna. Poi, vedendo la crudeltà della mia famiglia, che pur di non essere disonorata da una figlia suicida, ha firmato per farmi credere pazza, ho capito la logica che sprona tanti a mettere le bombe. Distruggere per distruggere. Questa gente, come la famiglia dove sono nata, è una razza che disonora l'umanità.
Mi accolse una mia cugina, emarginata anche lei perchè ragazza madre. Era una di quelle che avevano fatto le battaglie nelle piazze. Tutta la sua vita era politicizzata. Si era così trovata ad educare un figlio, a dover lavorare per mantenerlo... Lei mi capiva. Mi fece dormire sul divano di un piccolo soggiorno finché non trovai un lavoro di badante che mi asssicurava anche il posto letto.
Quando morì la vecchietta che accudivo, la famiglia del figlio volle tenermi come collaboratrice domestica. Lui era avvocato e riuscì a far luce sulla mia tragedia. Attraverso di lui riuscii a riprendere il mio lavoro di insegnante e a trovare un appartamentino vicino a dove abitavano. Restammo sempre in rapporto ed Elvira, loro unica figlia, è cresciuta più con me che con i genitori.
Luciano si è rifatto vivo dopo 30 anni. Mi fece cercare attraverso il comune. Ci incontrammo al primo bar vicino alla stazione dove arrivò una mattina di inizio estate. Davanti a lui mi sentii come al manicomio. Senza parole. Mi chiese se avevo bisogno di qualcosa. Sarebbe stato meglio non udire quelle parole. Anche stavolta lo vidi piangere.
Seppi del suo infelice matrimonio naufragato presto, delle sue continue ricerche di me. Non so come aveva fatto a sapere che ero viva. Mentre lui attingeva speranza dal suo stesso raccontare, l'abisso tra noi diventava sempre più profondo. Ciò che distanziava le nostre esistenze era la nostra stessa fragilità.
Luciano piangeva. Stupito dalla mia indifferenza restò in silenzio. Come me. Quando mi alzai dal tavolino lui era convinto che avremmo continuato a vederci. Gli raccontai in due parole dov'era ridotta la mia esistenza. Lo salutai senza dare né chiedere recapiti. La città anonima mi avvolse nascondendomi allo sguardo esterrefatto di Luciano. Ora continuo a premere con tutte le forze sulla lapide del passato. I morti non bisogna mai risuscitarli".
Milena finì di consumare con eleganza quanto ci era stato servito. Il suo volto si illuminava solo quando intravedeva Elvira che girava felice tra gli invitati.
"Ho cercato di trasmetterle quel po' di saggezza che la vita, nella sua ferocia, mi ha dato".
Quando Elvira raggiunse il nostro tavolo, abbracciò commossa l'amica e rivolta a me: "Se non ci fosse stata Milena oggi non saremmo qui, non sarei mai sbucata fuori dal tunnel della droga. E' stata lei a insegnarmi a camminare a testa alta sulle braci della vita".
Apparso su Città Nuova, "La saggezza di Milena", 1/2008
Foto di T. Minuta