Mi scrive Leonardo:
«Son diventato un tuo fedele lettore. Dapprima mi ha attratto il tuo modo di descrivere le situazioni e poi la tua vita. Quello che racconti avrebbe del paradossale se non ci fosse la garanzia che è comunque vita vissuta e ciò merita rispetto. Albert Einstein dice che “ci sono due modi per vivere la vita. Uno è credere che i miracoli non esistono. L’altro è pensare che ogni cosa è un miracolo”. Mi sembra che tu faccia decisamente parte di quelli che pensano che tutto è miracolo, e sanno stupirsi. Penso che il tuo stupore sia anche capacità di vedere ciò che altri non vedono. Io sono uno di quelli che non vedono. Non vorrei portare il mio discorso su un piano di fede religiosa. La mia cecità è esistenziale nonostante io mi senta una persona realizzata. E questo lo dicono anche i miei amici.
Ho una professione che mi gratifica. Una donna che da anni è sorgente di vita e gioia. Non so se sono diventato quello che i miei amati genitori sognavano per me. Ormai non glielo posso più chiedere. Se ne sono andati a distanza di un anno l’uno dall’altra senza aver provato la gioia di vedermi sistemato, dopo tanti sacrifici che hanno fatto per me.
Mi capita che quando mi fermo, in genere a giornata finita, i pensieri si rincorrano precipitosamente uno dopo l’altro, uno tirato dall’altro e creano in me la domanda sul senso del mio vivere. Il senso degli incontri, il senso del dolore. Il perché qualcuno agisca per fare male agli altri. Mi brucia la domanda di come mai il mondo si regga e vada avanti su sistemi di egoismo sempre più raffinati. Perché la gente si uccide? Poi quando penso ai miei genitori, che ormai tacciono per sempre, un senso di nullità invade tutto e di colpo si scolora ogni fatto, ogni speranza. Anche l’amore stesso sembra che si rivesta di passeggera relatività. Provo un indefinibile smarrimento e una nebbia di tristezza ottenebra improvvisamente quello che vedo.
Non sono diventato medico, come avrebbero desiderato i genitori. Sono un insegnante di materie umanistiche. Mi domando, se avessi studiato medicina, forse avrei potuto approfondire lo studio sull’uomo e avrei qualche pista in più da percorrere. Invece il bagaglio di filosofia che possedevo, da tempo si è già esaurito. La fede resta una possibilità. Una specie di tesoro nascosto del quale non si conosce la mappa.
Nelle tue storie c’è una fede costitutiva della tua vita stessa. È una conquista? Un colpo di fortuna che ti ha fatto conoscere la mappa del tesoro? Cos’hai tu che io non possa avere?
Tante volte misuro la mia vita con l’importanza che ho agli occhi degli altri, con quello che riesco a fare per la gente che mi circonda. Eppure mi viene spontaneo chiedermi: “Chi sono veramente io?”. Il tuo Pirandello direbbe che ciascuno di noi è “Uno, nessuno e centomila”. Sono quel “qualcuno” che io penso, o sono quello che i centomila vedono? O sono la somma di centomila volti che equivalgono a nessuno? La vera solitudine la provo quando parlo di queste cose. Colgo negli altri le stesse mie domande e l’insicurezza degli altri aumenta la mia. Non cresce la solidarietà quando si è paralizzati intimamente dalla stessa paura della vita.
Se tu avessi un segreto da vendermi, te lo pagherei al prezzo che stabilisci tu. Forse potresti rispondermi che il segreto me lo hai già rivelato attraverso i fatti della tua vita che racconti. È quella fiamma che qualcuno ha acceso in te. È una fiamma che nutri, che alimenti e proteggi. Quale Prometeo ruberà la fiamma degli dei per accendere anche me?».
Fu come se non avessi sentito mai la frase “Il Padre cerca tali adoratori”. Il collegamento di quella dichiarazione di Gesù con le domande di Leonardo fu inevitabile. Il senso d’inadeguatezza per non sapergli dare una risposta fu cancellato dalla certezza che chi fa la verità arriva alla luce. E la verità è amare, cioè darsi agli altri come un fiore che dà la sua bellezza senza vendersi.
Quel giorno, (e così continua il gioco del “regista”), Alessandro, un amico antropologo, mi manda una poesia di Emily Dickinson:
Non conosciamo mai la nostra altezza
finché non siamo chiamati ad alzarci.
E se siamo fedeli al nostro compito
arriva al cielo la nostra statura.
L'eroismo che allora recitiamo
sarebbe quotidiano, se noi stessi
non c'incurvassimo di cubiti
per la paura di essere dei re.
Foto di Maurizio Mosconi