sono entrato nel tuo blog perché eri citato da qualcun’altro. Non sapevo neanche se sei vivo.
Io non ho la fede che traspare dal tuo modo di vivere la vita.
Sembra che la tua non sia una visione della vita acquisita dalla cultura cristiana in cui sei immerso, ma che sia il tuo stesso modo di vivere a darti questa conoscenza. Questo si vede dai fatti che racconti. Anche le storielle-favola dicono molto.
Nel caos in cui viviamo e dove è vietato riflettere, ogni persona come te che offre un pensiero, diventa automaticamente una speranza.
Chissà quanti te l’hanno chiesto.
Dimmi in una parola: dove si fonda la certezza che il tuo modo di vivere sia quello giusto?
Saverio
Saverio,
mentre continuano ad arrivarmi "risposte" per te, ti dico la mia. LA CERTEZZA SI COMPONE GIORNO DOPO GIORNO COSI': LASCIO CHE I FATTI SI COMBININO NELLA LORO LOGICA E MISTERIOSA ARMONIA: OGNI PERSONA UN SEGNO, OGNI ACCADIMENTO UN'INDICAZIONE. La fede è soltanto una porta sempre aperta. LA FEDE E' "OCCHI ".
Ti sono grato. Tanino
ieri mi è successa una cosa un po' particolare. Ero alla fermata dell'autobus, alla stazione di Firenze. Quindi, una fermata con un bel po' di persone abili e reali. Vive. Scende da un bus un signore disabile, forse di origine slava, messo davvero male. Occhi che seguivano direzioni diverse l'uno dall'altro, denti storti, gambe rivolte verso l'interno così che le ginocchia dovevano sopportare tutto il carico, compresa la parte interna del piede e la caviglia. Era praticamente piegato in avanti… Insomma, un uomo sfortunato. Si aiutava con un bastone arrangiato, con un pezzo di gomma nella parte inferiore per non scivolare. Aveva anche dei pezzi di fogli gommati legati ai piedi fino alle caviglie, per non graffiarsi e non essere del tutto a contatto col terreno. Mamma mia, ridotto davvero malaccio.
(…) Arrivando al dunque, giunge il suo autobus e vedo che lui si alza (gli avevo chiesto se aveva bisogno di spostarsi o sistemarsi e mi aveva risposto di no, si stava riposando) dirigendosi anche con un certo sforzo (sebbene sembri che sia forte e riesca a fare movimenti con un certo scatto) verso la porta centrale del mezzo. Aveva movimenti cadenzati e irregolari, dovuti sicuramente allo sforzo fatto per non perdere equilibrio e alla spinta che doveva impartire al corpo per far sì che le due gambe si trascinassero in avanti. Nessuno si è sognato di muovere un dito per aiutarlo. E salire su un bus per lui non è cosa facile, non riesce ad alzare bene le gambe, non ha la padronanza che abbiamo noi persone senza handicap fisici.
Il bus ha richiuso la porta e stava per ripartire, l'omino era lì davanti e non ha fatto in tempo neanche a sperare di salire. Al che, ho sbattuto il pugno sul vetro della porta e il conducente „allora” ha aperto. Sono ciecati o fanno finta di non vedere?
Vedendo che l'omino si allungava verso la porta, sono salita prima di lui, e l'ho tirato sù perché da solo non ce l'avrebbe mai fatta. L'ho tenuto stretto finché non fui sicura che fosse in piedi e stabile e poi sono scesa. Mi ha ringraziata. Una cosa che mi ha fatto provare una bella sensazione dentro.
Ma non è questo il punto. Il punto invece è che scesa dall'autobus, quello è ripartito e la gente intorno mi ha guardata come se avessi fatto un gesto difficile e ammirevole, un gesto degno dell'etichetta di eroico.
In special modo una giovane, che era più vicina di me al bus dove il signore doveva salire (e quindi che sarebbe stata più veloce di me a salirci e a dargli una mano), mi ha guardata quasi con compassione, come se dicesse "che brava che sei stata!".
Io non voglio sentirmi brava, non voglio che queste cose vengano etichettate così! Per me non conta niente se sei un poveraccio un riccone, se sei sporco da fare schifo come lo era purtroppo quel povero omino o se profumi di chanel 5. Se hai bisogno di aiuto, io non rifletto. Faccio. E per me è sempre stato così, è una cosa normale. Invece, a quanto pare non lo è! Non è normale aiutare. Questo mi fa imbestialire più di tutte le altre ipocrisie che fanno parte della nostra cara bella Firenze. E' un grande schifo. Individualismo e perbenisimo da vendere in ogni angolo della città, anche tra le persone che ti sembra di conoscere ma che in realtà non sono quello che credevi.
Eroico.. ma cosa? Dove? E' orribile che le azioni che dovremmo fare perché sono umane e solidali siano talmente in disuso e talmente allontanate dalla quotidianità che poi vengano strumentalizzate dagli altri per farti sentire quello che loro vogliono che tu sia: un "eroe". Perché non è il fatto che tu venga definito tale che fa scoop e fa notizia, ma è il fatto che „quella” persona ti ha etichettata in quel modo. Che quella persona ti ha dato un ruolo che non ti appartiene, solo perché essere eroe fa notizia ed è bello per la società mostrare sui giornali e sulle tv che c'è qualcuno che fa queste cose così magnanime e umane.
Che grande schifo, è proprio tutto un grande schifo!
Non provavo tanta delusione da un sacco di tempo… Iasmin Abou Shareb
Cara Iasmin,
ti conosco. Sei una ragazza meravigliosa. Sei bella, intelligente, canti con una voce rarissima, parli varie lingue… ma con quello che mi racconti riveli un altro talento, il più importante: hai cuore.
La gente paralizzata dal perbenismo vuoto ti delude e questo per te è insopportabile. Vorrei dirti: non mollare! Fai quello che senti di fare, come senti di farlo… prima o poi non sarai sola.
Grazie a nome di molti che ti hanno vista e che avranno il coraggio di ripetere il tuo gesto, Tanino
in genere apro il mio blog per inserire qualche nuovo pezzo, per leggere i commenti che mi lasciate e per “incontrarmi”, foto dopo foto, nome dopo nome con voi, lettori affezionati.
Dai vostri commenti lasciati nel blog o mandati via e-mail, nasce l’idea di cosa inserire. Il blog, quindi, è come la composizione a più mani di uno spartito che si libra nell’aria.
Alcuni riportano qualche mio post nel loro blog, e questo mi dà una grande gioia perché è un segno visibile che l’esperienza che traggo dalla vita è un bene comune.
Ci siete certuni dei quali non ho un indirizzo oppure un volto e pertanto vi considero una vivace banda di angeli custodi.
Se dovessi fare un bilancio di questi mesi, da quando si è aperta questa finestra nell’infinito, l’unica somma che riesco a tirare è un immenso grazie a ciascuno.
Grazie anche a Città Nuova che ci ha fatto questo dono e anche in questo si vede che raggiunge il suo scopo di contribuire a fare del mondo una famiglia.
La nuova primavera… è il mio augurio per ciascuno.
C’era un fiume che tutti chiamavano Azzurro perché rifletteva il cielo come nessun altro corso d’acqua sapeva fare. Azzurro attraversava paesi e città e dappertutto era accolto con gioia e canti e musica. Passava anche per una città triste e allora le sue acque diventavano grigie e scure. La gente si odiava a tal punto che tutti i ponti del fiume erano stati distrutti e gli abitanti avevano piantato lungo le rive alberi alti e forti per non vedersi. Così per anni e anni gli alberi crebbero, i cespugli divennero folti, spessi e pieni di rovi. Ma la cosa più triste era che perfino gli alberi di una riva odiavano quelli dell’altra riva.
La gente si dimenticò del fiume e così tanti vissero e morirono senza sapere che esisteva l’altra riva.
Un giorno, dei bambini che giocavano a nascondino, riuscirono a oltrepassare il fitto muro di siepi selvatiche e di alberi vecchi e stanchi e, per la prima volta nella loro vita, videro il fiume.
Alla loro meraviglia il fiume divenne azzurro, si fermò e con i suoni delle onde raccontò loro che c’erano grandi e belle città dove lui passava, città piene di ponti e di barche, dove la gente si amava ed era felice. I bambini si guardarono, si sedettero sulla riva e cominciarono a pensare come far diventare felice anche la loro città. Ma non sapevano da dove cominciare.
Azzurro disse loro:
«Vi aiuto io! Cercate dei tronchi forti e robusti e delle liane. Legateli ben bene e io vi porterò in posti meravigliosi».
Ma dove trovare i tronchi?
I bambini si misero a cercare ma di tronchi non ne trovarono. Raccolsero soltanto legna molto vecchia e frasche e rametti secchi. Si misero al lavoro e dopo giorni ecco una bella zattera. I bambini vi salirono subito sopra e la zattera allegramente li portò a vedere paesaggi nuovi, alberi mai visti, fiori coloratissimi e profumati.
Poi, aiutati da Azzurro toccarono l’altra riva dove uccelli splendenti cantavano al sole e all’acqua.
I bambini giocarono a girotondo e cantavano. A un certo punto si accorsero che attorno a loro c’era un girotondo ancora più grande: erano i bambini dell’altra riva che udito il loro canto avevano oltrepassato la siepe. Divennero amici. Quando fu l’ora di tornare a casa, si salutarono con la promessa di ritrovarsi il giorno dopo all’altra riva. E così fu: un giorno alla riva destra, un giorno alla sinistra. La zattera portava i bambini che imparavano nuovi giochi ed erano felici. E tutti ormai avevano imparato la canzone che la zattera intonava mentre li trasportava.
I genitori di tutti i bambini si accorsero che i loro figli erano felici, ma nessuno seppe perché.
Passarono giorni e stagioni e la zattera divenne vecchia e stanca.
Un giorno i bambini delle due rive arrivarono pieni di gioia ma non videro la zattera.
Il fiume allora disse:
«Cari bambini, dovete sapere che la zattera essendo ormai vecchia e stanca, da tempo andava ogni notte dagli alberi a chiedere qualche ramo nuovo e qualche liana per legare i pezzi deboli. Gli alberi, vedendo che univa le due rive nemiche, non hanno voluto aiutarla. Ora, non avendo più le forze di trasportarvi e temendo che vi succedesse qualcosa, si è allontanata».
«E dov’è adesso la zattera?» chiesero.
«Venite con me».
Azzurro li condusse verso un punto della riva dove si poteva vedeva la zattera che si dibatteva in mezzo alle onde. Piangeva ma non voleva che i bambini soffrissero nel vederla in quello stato. Le onde cercavano di consolarla.
E mentre piangeva raccomandava di volersi bene e di non fare come i grandi. Poi l’acqua cominciò a entrare tra un legno e l’altro, la voce della zattera divenne sempre più gorgoglio d’acqua, le liane si sciolsero e lentamente, lentamente la zattera scomparve tra le onde.
Anche i bambini piansero di dolore. L’acqua del fiume divenne grigia e gli uccelli smisero di cantare.
Gli alberi che non avevano voluto aiutare i bambini, vedendo con quale amore la zattera li aveva protetti dal pericolo, decisero di andarla a pescare in fondo al fiume. Così uno, poi un altro, da una riva e dall’altra, gli alberi piegarono i loro tronchi e con i loro rami si misero a cercarla in fondo al fiume. Ma non la trovarono.
Cerca e cerca, lì in fondo alle acque i rami degli alberi delle due rive si toccarono, dapprima cercarono di evitarsi, poi fecero finta di niente, poi si strinsero le mani, cioè i rami, si legarono stretti perché così sarebbero stati più forti per prendere la zattera.
I bambini intanto chiedevano se avevano trovato qualcosa.
Gli alberi si sollevarono e dissero: «Sì abbiamo trovato un tesoro, un grandissimo tesoro che ci ha regalato la zattera: ci ha fatto scoprire che siamo fratelli, che dobbiamo volerci bene, anche se gli uomini si odiano e costruiscono confini e steccati».
E rimasero abbracciati con i loro rami.
Ma quale fu la meraviglia? Gli alberi, così legati sentirono sulla loro schiena qualcosa che correva velocemente da una parte e dall’altra. Erano i bambini che visto quel ponte fatto dagli alberi, corsero dall’una all’altra riva, così per tutta la giornata fino al tramonto.
Quando scese la sera i genitori cominciarono a cercare i propri figli. Non trovandoli subito, si spinsero fino agli alberi e dal vocio, capirono che avevano oltrepassato la siepe. Qualche papà cominciò a tagliare pezzi di siepe mentre le mamme con le torce accendevano i rami secchi.
Ben presto dall’una e l’altra riva i genitori videro uno spettacolo mai visto. I loro figli passavano di qua e di là, senza paura, sugli alberi piegati che formavano tanti e tanti ponti.
Allora passarono anche loro e, quando furono al centro dei ponti, si strinsero la mano e decisero di dichiarare la pace.
I bambini applaudirono di gioia e cominciarono a cantare la canzone della zattera.
Tra i papà c’erano i sindaci delle due città nemiche che decisero di costruire subito un ponte grande e sicuro e fare delle due, una città sola, come era stata tanti e tanti anni prima.
Il fiume, commosso di gioia, cominciò a luccicare di stelle, di luna e del fuoco che lungo le rive le mamme avevano acceso.
Qualcuno andò a prendere strumenti musicali e tra canti, luci e musica arrivarono presto barche dalle altre città. E tutti fecero una grande festa e danzarono tutta la notte.
I grandi erano felici, più felici i bambini. Ma improvvisamente un dolore li prese: E la zattera, dov’è andata a finire?
Un gufo allora volò sopra di loro e i bambini lo seguirono con lo sguardo e poi si incamminarono verso il posto dove il gufo era volato. Da quel punto della riva videro navigare verso di loro la zattera, era come se avesse un vestito nuovo. Era sempre la stessa zattera, ma era tutta riparata. Dapprima non disse niente, era commossa pure lei, poi disse: «Quando ho visto che i rami si erano ritrovati amici, ho pensato che era meglio lasciarmi trasportare fino al mare, ma delle marmotte, che hanno visto quanto bene mi volete, con una diga ben intrecciata mi hanno raccolta e poi ricostruita. Eccomi qua, per continuare trasportarvi dove volete voi».
Anche la luna si commosse e, mentre la zattera portava i bambini dove c’era la festa, brillò così fortemente che il luccichio delle gocce sulla zattera rimase fisso come fossero perle accese.
Quando la gente della città vide arrivare la zattera carica di bambini, scoppiò un grande applauso che fu talmente grande che si udì anche da altri paesi e città. Azzurro allora, grato e felice, continuò a scorrere verso altre città e verso altre storie, lasciando in festa la città unificata. I sindaci allora decisero che il nome della città sarebbe stato: Zattera Azzurra.
Acquarello di Eva Sladeckova Favola raccontata e animata dalla TV LUX (Slovacchia), Avvento 2009 (appena farò il doppiaggio la inserisco nel blog)
Presso una fontanella del viale centrale del cimitero della mia città natale, mi apprestavo per la terza volta a riempire l'innaffiatoio, ormai scolorito come le tombe.
Si avvicina un signore con una bottiglia di plastica. Gli faccio cenno che può riempirla. Il robusto cinquantenne, con la giacca scura che tiene in mano e con la camicia bianca sudata, mi fa capire che può attendere. Riconosco Bruno, l’ho incontrato chissà quanti anni prima. Lui, indicando il cancello d'entrata: “Non c'è giorno che per questo cancello non entri qualcuno!”.
Lo ascolto, senza controllare a che livello è arrivata l'acqua nell'innaffiatoio. Il mio interlocutore, poggiata la bottiglia su una tomba si toglie la cravatta nera, sbottona collo e polsini della camicia e, fattosi più vicino, domanda: “C’è un luogo dove si compiono le storie? Esistono i prati di asfodelo dove ci incontreremo dopo la morte?”.
Resto in silenzio. Lui, annegato nei propri pensieri, con un volto improvvisamente serio: «Se n’è andata. Proprio quando l’avevo ritrovata! Aveva 15 anni quando quando l’ho conosciuta. Io ne avevo dieci di più. Capitai alla festa di una sua compagna di scuola. Clelia scherzava con me come con tutti. Ma quella ragazza libera e felice cominciò a turbarmi.
Seduti sul gradino del marciapiede arrivavano fino a noi le canzoni dal giradischi a tutto volume. Era impacciata, forse non si sentiva a suo agio. Non era una bambina, ma non sapeva comportarsi da donna. Le chiesi di ballare la mia canzone preferita “Liebelai”.
Sul marciapiede, lontani da tutti gli altri, non dovetti insistere. Ballammo e mi sembrò di avere tra le mani un fragile pulcino. Per me era sognare, per lei forse un gioco.
Con il passare dei giorni le immagini di quella sera mi si ravvivavano nella mente come rimproveri. Come se avessi fatto tutto per costruirmi un sogno ed avevo usato anche lei. Ma la sua ingenuità mi bruciava. Cominciammo a frequentarci. Clelia sapeva che il significato del suo nome greco è gloria. Ma fui io a farle capire che quel nome esprimeva esattamente quello che era, la sua gioia, la pace che trasmetteva agli altri. E il mio amore la accese, fu il suo primo amore e forse l’unico. Ho rispettato i suoi tempi. Quando, dalla città dove facevo ricerche geofisiche, tornavo ad Agrigento per rivederla, sapendo che aveva da studiare per gli esami, le correvo dietro soltanto per augurarle successo. Sull’unica foto che mi regalò c’è lei sui bianchi scogli della Scala dei Turchi che guarda lontano, verso il mare. Le chiesi una dedica e Clelia scrisse il titolo di un film “Il vento non sa leggere…”. Nient’altro.
Nessuno prima di me le aveva fatto sentire quali capacità e talenti avesse. Nessuno come lei mi ha fatto misurare i miei limiti, la mia mediocrità. È questo che ha innescato la miccia che ha fatto crollare qualcosa che si prometteva eterno. Eravamo specchio l’uno all’altra e la verità ci faceva male. Il nostro amore non fu capace della verità.
Ma non è stato questo il fossato che ci ha divisi. È stato Dio a dividerci. Lei credeva in Dio e io ridevo della sua irrazionalità. La spingevo a uscire dalla stagione delle favole e diventare donna con me, per me. Questo divario fu più profondo del fossato creato dalla vergogna del mio grigiore di fronte alla lucentezza disarmante della sua serenità. Vinceva perché non le importava vincere. Ho cercato tutto il negativo che potevo trovare in lei per non sentire il bruciore della gelosia.
Così giorno dopo giorno i fili di una grande storia annunciata si sono consumati e non ho impedito che Clelia uscisse dai miei giorni. Facilmente rimossi ogni ricordo come si nasconde un lato vergognoso della propria vita. Quando si è proiettati verso la propria realizzazione non immaginiamo che il futuro si conformerà sempre di più ad un sogno segreto.
Ho fatto la mia carriera. Ho una famiglia che mi dà tanta gioia. Quando la mia terza figlia cominciò il liceo classico, ecco che una delle insegnanti fu Clelia. Ci presentammo come i genitori di Alessandra. Da decenni non la vedevo. Lei, con la grazia raffinata dal tempo, ci parlò della nostra bambina come noi genitori non avremmo saputo fare.
Un giorno mia figlia ci disse che Clelia mancava da settimane e che avevano già un supplente. Quell’assenza come un tarlo cominciò a scavare nei miei penseri ed ebbi la percezione che rendesse instabile la terra che mi sosteneva.
Seppi che Clelia era gravemente malata. Mi offrii di accompagnare mia figlia a visitare la sua insegnante in un ospedale lontano.
La trovammo serena e sorridente. Alessandra parlò a lungo con lei, mentre io nel corridoio di quel luogo così distante dal rumore quotidiano, le osservavo. Quando la salutai, avrei voluto abbracciarla e non lasciarla più.
In macchina Alessandra era pensierosa: “La prof mi ha detto che ciò che divide gli uomini non sono le idee o una fede ma la paura della verità. Mi ha detto che la vita è una lotta e che l’unica forza vincente è l’amore e che esso scioglie anche il buio che è dentro di noi. Anche la malattia è un buio che ora ha preso per lei la maschera della morte. Mi ha abbracciata raccomandandomi di osservare il vento che non sa leggere… ma sa sradicare le querce!”».
Bruno riempì la sua bottiglia che gocciolò per un po’. Le sue lacrime luccicarono ai caldi raggi di un sole che si stava affrettando ad uscire dal calendario per andare a diffondere pace sui bianchi prati di asfodelo.
“….apre strade, sentieri, salite, rotte in tutte le direzioni che portano a Dio. Indica la via come i cartelli stradali e non ha la pretesa d’imporsi, ma la speranza d’essere letto, capito, seguito…”
“In verità vi dico: se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile” (Mt 17,20).
Ero in Ungheria da due settimane. Non conoscevo ancora né la lingua del posto e nemmeno il tedesco o l’inglese che molti sanno. Non essendo abituato al cibo, mi son trovato con un fastidioso malessere che peggiorava di giorno in giorno. Tutti i tentativi fatti avevano aggravato la situazione. Una mattina, molto debilitato e un po’ scoraggiato, chiesi aiuto a Dio Padre.
Quel giorno, alla mensa dopo aver scelto i cibi che mi sembravano leggeri, mi siedo ma non riesco a mangiare.
Qualcuno, seduto di fronte, capito che ero straniero, mi chiese in francese, lingua che conosco, se avevo qualche problema con il cibo. Non si trattava del cibo ma del fatto che non stavo bene.
Era un medico. Gli esposi il mio disturbo. Lui mi scrisse la ricetta. La sera tutto era già risolto.
Questo come altri fatti simili, sono per me una grande educazione alla fede. Ciò che sempre mi commuove è la puntualità di Dio. Ho imparato non solo a chiedere ma anche a essere attento a come Lui risponde.