Non ricordo esattamente quanti anni avessi. Ero sicuramente molto piccolo, nell’età dei mille perché. Ed uno dei miei “perché” era: “Perché Peppe non parla?”. “Perché è sordomuto” rispondevano i grandi. “E perché è sordomuto?”.
Peppe veniva quasi tutti i giorni da noi. Era povero, solo. Gli davamo da mangiare. Il fatto che fosse sordomuto non mi spiegava nulla. Volevo saperne di più.
Assieme a mio fratello, di poco più grande di me, trovammo la spiegazione giusta: “Peppe non parla perché ha finito tutte le sue parole”. Ricordo che da quel giorno fui preso dalla nascosta paura di consumare tutte le mie parole. Da un momento all’altro anche le mie parole sarebbero finite, proprio come finisce un gelato. Così con mio fratello decidemmo di conservarci più parole possibili fino a che non saremmo diventati grandi. I grandi, infatti, non hanno problemi. Parlano, parlano, parlano e non hanno paura che le loro parole finiscano. E io vedevo che di parole i grandi ne avevano tante. E avevano parole difficili, anzi difficilissime. Mio padre, per esempio, quando parlava diceva spesso insomma. Io non sapevo cosa fosse quella parola. Non era un tavolo, non era un oggetto da me conosciuto. Era una parola che solo i grandi potevano dire. E mi dicevo: “Anch’io da grande potrò dire insomma tutte le volte che ne avrò voglia!”. E sognavo il giorno in cui finalmente avrei potuto dire: insomma!
(Eravamo partiti con questa pubblicazione il 28 ottobre 2009. Non avrei immaginato che dopo un anno sarebbero stati così tanti gli amici che avrei incontrato. Insomma... un grazie immenso a tutti! Tanino)
Luisa, una sostenitrice del blog, mi scrive dell’autunno.
È poesia. Con il suo permesso dono anche ad altri i suoi pensieri. Ho scelto anche una poesia di Cardarelli che si imparava a memoria alle elementari.
Luisa:
Autunno, la mia stagione (la metamorfosi dei colori naturali, la pace dopo il chiasso dell'estate, l'odore di terra bagnata, l'attenuarsi sfumato dei paesaggi nella nebbiolina dell'alba o del tramonto, il ricordo dell'odore dei libri nuovi di scuola che sfogliavo velocemente vicino al mio naso, il tepore delle prime coperte di lana sul letto, un gran senso di pace donato dalla natura che si quieta e, dopo l'uva e le olive, prende il suo meritato riposo...), ma ormai anche la "nostra" reale umana stagione di vita, vero?
E come tale invita a un apparente letargo che tale non è: imitando i semi, ormai già posti nei solchi arati delle campagne, è tempo che ci si prenda uno spazio per riconoscere in noi i semi che ci sono stati affidati dal Signore e dalla famiglia e meditare sull'uso che ne abbiamo fatto. E' tempo di ringraziare per il piccolo o grande raccolto della nostra umana "estate" ormai trascorsa; della forza ancora concessa per donare quello che possiamo e sappiamo; per guardare con serenità a ciò che attende là, dietro l'angolo, l'eterna sorpresa gioiosa o dolorosa della grande avventura di questa vita terrena!
Ma ciò che non ci deve sfuggire in questo naturale e umano Autunno, è la promessa bellissima che racchiude: sotto la terra, nel nostro cuore, nel mistero che tutto questo innegabilmente è, i semi non sono inattivi, si preparano a germogliare al primo tocco del caldo "Sole", e fendendo le zolle indurite dal freddo invernale che li ha fatti immaginare come morti lì sotto, vengono alla luce, sorpresa sublime piena di grazia e di colori e di promesse future di frutti abbondanti: una vera resurrezione!
E allora sia benedetto il nostro Autunno. Sono molto contenta che sia la mia stagione preferita.
Vincenzo Cardarelli:
Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
Nascosta tra rovi e rocce c’era una grotta dove viveva un uomo saggio. La sua fama aveva oltrepassato monti e valli.
Un giorno lo raggiunsero tre giovani forti, spavaldi e curiosi. Il saggio ascoltò le loro domande e alla fine diede a ciascuno un seme: “L’albero darà il suo frutto,mangiatelo quando è maturo. Vi farà capire il segreto della vita”.
Mentre tornavano in città i giovani si chiedevano increduli: “Un frutto che insegna a vivere?”
Dopo la giusta attesa, gli alberi nati dai semi, portarono frutto.
Il primo dei tre giovani, per diventare saggio prima degli altri, raccolse tutti i frutti del suo albero, ancora acerbi. Li mangiò avidamente ma i frutti non avevano sapore. Ciò che lo fece arrabbiare fu un mal di pancia terribile come mai aveva avuto. Allora lui, amareggiato e deluso, segò l’albero.
Il secondo, per non fare come il primo, fu prudente e attese e attese. Ma, ahimè!, i frutti già sfatti, in una notte di vento, caddero e nutrirono così tanto le radici dell’albero che nessuna scala esistente nel paese poteva raggiungere i pochi frutti rimasti sui rami. Anche lui pensò che il saggio si fosse preso gioco di loro e tagliò l’albero per non pensarci più.
Il terzo, una mattina, fu svegliato dal cinguettio degli uccelli e dal ronzio delle api che in festa giravano attorno all’albero al centro del giardino. Capì che i frutti erano arrivati a giusta maturazione. Li raccolse e, prima di assaggiarne, li portò ai due amici per consolarli. Li mangiarono. Erano veramente deliziosi. Non avevano mai assaporato un frutto simile. Dopo aver mangiato, i due chiesero: “Dove sta il segreto? Bastano i soldi, e di frutta ne compriamo tutta quella che vogliamo!”
Il terzo disse: “Forse il saggio voleva farci capire che come il frutto non va raccolto né prima, né dopo, ma al momento giusto, così ogni cosa va fatta a suo tempo”.
“E noi dovremmo stare tutta la vita a romperci la testa per capire quale sia il momento giusto? Troppo difficile!”
Pieni di stizza e senza salutare se ne andarono all’osteria.
Il terzo invece si mise in cammino verso la montagna. Arrivò tra le rocce. Cercò il saggio per ringraziarlo, ma non lo trovò.
Allora tornò in paese e per amore e gratitudine verso il saggio, cominciò a distribuire i semi della saggezza a tutti i paesani che, vedendo in lui tanta bontà, presero il seme con il cuore pieno di speranza. E tutto il paese si animò di nuova gioia.
Dalle foglie è spuntato giorni fa un nuovo getto. Era difficile stabilire se si trattava di una nuova radice o di fiore. Oggi, dalla direzione verso l’alto so che ci sarà un nuovo fiore.
Proprio in questi giorni in cui la “presenza” di Marco Bettiol è forte, e adesso, mentre scrivo, Maurizio mi comunica la morte del padre, l’orchidea mi sta spiegando che nell’umanità ci sono persone che fanno da radice, altri risplendono come fiori.
E mi fa capire che nella vita si alternano momenti-radice a momenti-fiore.
Per qualcuno la radice non è solo un momento. Penso a Chiara M., a Rosaria… persone che, per come vivono il loro stato, sostengono e fanno vivere la pianta dell’umanità. Anche me. Senza radice la pianta non avrebbe fiore. Ogni mia gioia ha una radice, visibile o invisibile.
Ieri mi scriveva un chirurgo che sta in Camerun, chiedendomi di dire di più della mia vita. Questa pagina è una prima risposta a Rolland e su richiesta anche di altri apro la rubrica “Diario”.
Oggi raccontavo al superiore di un ordine religioso di Marco Bettiol, un ragazzo di 18 anni che, seppur dentro un corpo fortemente segnato dalla malattia, riesce a comunicare con il computer. Dicevo: "Quando scrive ti apre una finestra che ti fa vedere lontano, dentro le cose. Dentro la tua stessa vita".
Quando il religioso è andato via, trovo al computer la notizia che Marco stamattina è “arrivato”.
I genitori scrivono: "..che festa grande, in Cielo!" Ringraziamo Dio che ce l'ha donato.
Marco carissimo, prega per noi.
Il 4 luglio 2010, scriveva:
La vita è una strada che non si ferma quando vorremmo sederci,
che molte volte non va nella direzione che avremmo desiderato,
che spesso è così in salita da lasciarci senza fiato,
ma che va affrontata con lo sguardo puntato sulla meta…
Buon cammino a ciascuno!
e ricordate che siamo tutti compagni di viaggio.
Il vostro Marco
Quando ci siamo conosciuti mi ha scritto: “Dio guida i nostri passi e ci porta sempre ad entrare in comunione l'uno con l'altro”.
Marco mi ha comunicato un sogno che aveva: “…donare luce ai cuori che sono in ombra, perché non conoscono il meraviglioso segreto di Dio Amore”.
Ad un gruppo di amici, che come lui conoscevano la spiritualità del focolare, scriveva un anno fa, facendo riferimento alla scelta di Gesù nel massimo dolore dell’abbandono in croce, come Chiara Lubich aveva fatto, e si firma Marco Amato, come Chiara lo chiamava:
...Dio amore ci parla attraverso il dolore che ci fa veramente sperimentare il nulla che si veste da sposa per dire il suo sì dell’anima.
Sento di volerci credere sempre, come Chiara ha fatto prima di me: scegliere Gesù abbandonato come unico amore, questo ci fa provare il vivere nel vuoto di noi, ma riempiti di ciò che Qualcun altro ha voluto per noi...
alla fine di questo mese è un anno che Città Nuova mi ha aperto questa finestra, questo blog, che ci ha permesso di comunicare, di conoscerci, di farci domande e trovare insieme risposte.
Cosa significa per me questo blog?
Educazione all’ascolto e quindi a essere sveglio ad ogni segno che mi arriva.
Abolizione di piccoli o grandi steccati veri o immaginari.
Aumento di responsabilità verso ciascuno di voi, quindi impegno a stare al mio posto per poter essere ciò che chiedete.
I vostri commenti, anche quelli non pubblicati, arrivati come e-mail, sono una miniera, sono uno specchio limpido, che accende d’improvvisa luce i catarifrangenti che mi segnalano la strada da seguire.
Quale grazie dirvi? Uno... immenso!
Se avete da darmi qualche consiglio sul blog o se aveste qualche desiderio, qualche idea, domanda… sappiate che lo considero un dono.
A proposito di Sul fondamento poetico del mondo di Giovanni Casoli, prefazione di Giovanni D’Alessandro, L’ora d’oro, Poschiavo, 2010
di Tanino Minuta
Essendomi fatta l’idea che Giovanni Casoli è una miniera, ogni volta che lui pubblica qualcosa cerco di non perderla. Così, quando Andrea Paganini mi ha mandato una copia del libro Sul fondamento poetico del mondo, edito nella primavera di quest’anno nella collana da lui diretta presso “L’ora d’oro”, l’ho accolto con gioia e una certa attesa.
Sono soltanto un utente di letteratura, non un critico letterario, quindi mi sono accostato al libro, come ad altre opere. Man mano che leggevo mi sembrava di assistere a un fenomeno: non ero un lettore ma l’oggetto di un dono.
Certamente è presente l’autore, che con la sua destrezza e l’estesa ricchezza delle conoscenze talvolta fa pensare che sta proclamando un nuovo manifesto poetico o che stia distribuendo a un popolo di vinti un libretto d’istruzioni su come aprire gli occhi sulla vita. No, non è soltanto questo che le pagine consegnano: l’opera è una cengia dove aggrapparsi, una finestra aperta, è un percorso che ti conduce, secondo la citazione di Foscolo, all’armonia che “vince di mille secoli il silenzio” .
Mi son portato il libro in bus, dal dentista, in attesa di una conferenza, all’agenzia viaggi.
Perfino in ospedale! Ero lì perché le zanzare sopravvissute alla disinfestazione, per vendetta aggredivano senza pietà con il veleno che non le aveva uccise. Così il dermatologo aveva una lunga fila di vittime. In attesa del mio turno apro il “vademecum” di Casoli e lì, più che mai, il potere di una voce che mi convince che “poeticamente abita l’uomo su questa terra” come dice Hölderlin.
Circondato da gente in silenzio, con più o meno tristezza negli occhi, in un ambiente senza nessuna qualità estetica, leggo della “morte che fa vivere”. È come se l’autore mi accendesse la voglia di vedere oltre le apparenze, di vedere dentro le cose. Mi viene in mente Ermes Ronchi: “La vita più che etica è estetica, avanza per delle passioni non per delle ingiunzioni. E la passione sgorga da una bellezza, dall’aver intuito la bellezza di Dio”.
Quando l’infermiera mi avvisa che è arrivato il mio turno, mi rendo conto che la mia attesa è stata popolata da una meraviglia, un viaggio nel meraviglioso come definiva la letteratura il mio caro professor Angelo Maria Ripellino. Lo sgomento, lo stupore poetico avevano scaldato e colorato il mio giorno di un sole nuovo.
Casoli sa essere dono e fare un dono di ciò che vede. È capace di farti sentire l’armonia e di introdurti nella danza della vita. E con lui arrivi a desiderare quello che lui vorrebbe come epigrafe: “Lasciami guardare, dopo aver chiuso gli occhi, il sole del sole, il mare del mare”.
Apparso anche su Città Nuova Online, 8 ottobre 2010
In una città triste arrivò da lontano Sasà, un sarto che confezionava abiti su misura non solo secondo l’altezza, l’imponenza, la bassezza, ma secondo l’età e secondo il carattere delle persone.
Un giorno si presentò in sartoria una mamma vanitosa con un bambino capriccioso.
Il sarto prese le misure, fece qualche domanda, stette cinque minuti in silenzio poi disse quanto sarebbero costati i cappotti.
Arrivò il giorno stabilito per ritirare i cappotti e la signora vanitosa con il figlio capriccioso andarono dal sarto ma c’era una tale fila che dovettero aspettare a lungo. La fama del sarto era talmente cresciuta che nessun cittadino voleva perdere l’occasione di un abito secondo il proprio carattere.
Quando arrivò il turno della signora, Sasà molto serio disse che nella confusione qualcuno aveva preso il suo cappotto pieno di nastri colorati e lustrini scintillanti, e che non era riuscito a trovare neppure quello del bambino.
Cerca e ricerca il sarto disse che c’era pronto il cappotto ordinato da una signora buona e semplice e addirittura ce n’era anche uno destinato a un bambino bene educato.
Siccome faceva freddo, la signora vanitosa disse che li prendeva, in attesa però di avere quelli che aveva ordinato.
Madre e figlio s’incamminarono dentro i cappotti nuovi. Ma, cosa veramente strana, lei per la prima volta si accorse che camminava senza voglia di attirare l’attenzione, mentre il bambino le stava vicino tranquillo e buono.
Nel viale della città a un certo punto la signora vide avvicinarsi una donna che camminava dentro qualcosa di scintillante, di vistoso e lei cominciò a ridere commiserandola: “Come si può portare un cappotto simile!”. Divenne di ghiaccio quando si accorse che quella donna portava il cappotto che aveva fatto confezionare per sé.
Quando il sarto si trasferì in un’altra città, la gente aveva capito: Sasà non era soltanto un sarto, ma uno che aiutava la gente a vedere i propri difetti. E la città divenne veramente bella.
«Caro Tanino, ho seguito alla TV la grande festa per la beatificazione di Chiara Luce Badano.
Il Movimento dei Focolari risplende di un frutto che evidenzia la natura dell’albero che l’ha nutrito.
Quando ho informato colleghe e colleghi, distribuendo qualche articolo preso da internet, ho ricevuto reazioni varie.
Una mi diceva “Che senso ha strombazzare ai quattro venti la vita di una ragazza? Quanti ne muoiono come lei! Quanta gente, più santa di lei resta sconosciuta!”. Un collega mi dice a quattr’occhi “Oggi il mondo, nella sua mortale mediocrità, ha bisogno di sapere che si può essere eroi. Chiara Luce ha lasciato che la sua vita prendesse una dimensione nuova, che non stava nelle sue mani, e oggi vediamo che Dio si era intrufolato nella sua vita”.
Un altro mi confidava che aveva visto le trasmissioni e che vorrebbe dare una sterzata alla sua vita, “perché vedere una ragazza bella che firma con gioia la sua stessa condanna, dandole un senso mistico di unione sponsale e che vive la tortura con fedeltà e serietà, addirittura con gioia… beh, questo non può lasciare indifferenti. O si tratta di pazzia oppure qui c’è qualcosa di veramente grande”.
Quello che più mi ha fatto pensare è l’estrema “ignoranza” che domina. Tutta l’informazione è quella indotta dai media o dalle chiacchiere. E non penso che questo sia tipico del mio ufficio ma di altre sfere. Lo vedo quando a scuola parlo con altre madri.
Cosa voglio dirti? Certamente Chiara Luce ha aperto una breccia e dobbiamo fare di tutto perché il grigio non la copra. Gilda».
Cara Gilda,
grazie della tua e-mail. La pubblico perché ha degli spunti che fanno pensare.
Scriveva san Pio da Pietralcina, padre Pio, quando ha scoperto nel suo corpo le stimmate “io sono un mistero a me stesso”. E non si è ribellato al mistero.
Ciò non significa adeguarsi fatalmente a ciò che non si conosce, ma accogliere attivamente, pienamente qualcosa di cui non si vedono i margini.
Chiara Luce ha avuto la forza di dare al dolore un volto, un nome: quello di Gesù in croce che grida “perché mi hai abbandonato?”. La sua identificazione con Gesù, ha dato frutti che ora si vedono.
I genitori, Maria Teresa e Ruggero, hanno donato al Papa uno scritto autografo di Chiara Luce, dove lei chiede a Maria la forza di non mollare. E anche questo è un documento del suo percorso.