martedì 5 novembre 2013

Essere maturi per morire



In ospedale mi hanno permesso di vegliare mio padre che è già molto grave.
Durante la notte viene da me un’infermiera per chiedermi se ho bisogno di qualcosa. Le dico semplicemente, a voce bassa, che non ho bisogno di nulla.
Mio padre mi fa cenno di avvicinarmi a lui. Parla con difficoltà e con un filo di voce mi dice: “Non hai ringraziato bene l’infermiera. Vai da lei e dille che è stata molto gentile a occuparsi di te”.
Così faccio. Nel lucido corridoio dell’Ospedale Gemelli, mentre torno da mio padre mi chiedo come mai, lui che è nella piena sofferenza si è accorto di un ringraziamento non perfetto.
Lui continua ad essermi padre, a insegnarmi cosa vale nella vita. La vera lezione per me è il paradosso di vedere un corpo distrutto e una carità sempre più raffinata.
Quel luogo di consumazione, dove ogni stanza è colma di dolore, diviene improvvisamente una cattedrale di luce. Posso costatare nella purificata carità di mio padre, il segno tangibile di Colui che ha vinto la morte.
Quando, il giorno seguente, mio padre ci lascia, non vedo la morte ma la risurrezione che affonda sempre più le sue radici in terra. Ed è il giorno dell’Epifania. 

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