Pasqua è voce del verbo ebraico “pèsah”, passare.
Non è festa per residenti, ma per migratori che si affrettano al viaggio.
Da non credente vedo le persone di fede così, non impiantate in un centro della
loro certezza ma continuamente in movimento sulle piste.
Chi crede e in cerca di un rinnovo quotidiano dell’energia di credere, scruta
perciò ogni segno di presenza.
Chi crede, insegue, perseguita il creatore costringendolo a manifestarsi.
Perciò vedo chi crede come uno che sta sempre su un suo “pèsah”, passaggio.
Mentre con generosità si attribuisce al non credente un suo cammino di ricerca,
è piuttosto vero che il non credente è chi non parte mai, chi non s’azzarda
nell’altrove assetato del credente.
Ogni volta che è Pasqua, urto contro la doppia notizia delle scritture
sacre, l’uscita d’Egitto e il patibolo romano della croce piantata sopra
Gerusalemme.
Sono due scatti verso l’ignoto. Il primo è un tuffo nel deserto per
agguantare un'altra terra e una nuova libertà. Il secondo è il salto mortale
oltre il corpo e la vita uccisa, verso la più integrale resurrezione.
Pasqua/pèsah è sbaraglio prescritto, unico azzardo sicuro perché affidato
alla perfetta fede di giungere.
Inciampo e resto fermo, il Sinai e il Golgota non sono scalabili da uno
come me, che pure in vita sua ha salito e sale cime celebri e immense. Restano
inaccessibili le alture della fede.
Allora sia Pasqua piena per voi che fabbricate passaggi dove ci sono muri e
sbarramenti, per voi apertori di brecce, saltatori di
ostacoli, corrieri a ogni costo, atleti della parola pace.
Erri de Luca, Messaggio a Pax Christi, aprile 2004
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