Questo appuntamento si ripete ogni volta che si esauriscono le quattro stagioni: quanti ricordi, quanti rimpianti! Si spera sempre in un tempo migliore di quello trascorso.
Tra i regali che ho ricevuto per le feste, c’è una clessidra a sabbia, è fatta da due coppe, due calici di vetro saldati alla loro base e comunicanti attraverso un foro attraverso cui, dall’una all’altra parte, passano tanti granelli di cristalli bianchi e il loro scorrere misura il tempo.
L’ho messo sulla scrivania e ho cominciato ad osservare come i cristalli, uno dopo l’altro, passavano dalla coppa superiore a quella inferiore. Se uno di questi è un istante della mia esistenza come vorrei che ognuno di essi sia un’opera compiuta.
Madre Teresa di Calcutta diceva: “Il bene che oggi fai, domani sarà dimenticato. Non importa fa’ il bene”.
Sì, perché soltanto il bene costruisce. Soltanto il bene rimane. Il bene è invisibile, non ristagna da nessuna parte è come il calore di un filo d’erba secco che bruciando restituisce al sole il calore che l’ha fatto nascere, crescere e morire. Quanti, goccia dopo goccia, riescono a trasformare la loro sofferenza in offerta! E chi lo sa? La grande opera che viene affidata ad ognuno in modo diverso è di far di ogni gesto un segno d’amore. Amore verso tutti, attimo dopo attimo, persona dopo persona, granello dopo granello, dolore dopo dolore, gioia dopo gioia.
Questo il senso della clessidra e del biglietto augurale che lo accompagna: “Lascia segnare il tuo tempo dall’amore e ogni attimo della tua vita sarà un capolavoro”.
“Dio abiterà con loro; essi saranno il suo popolo” (Ap 21,3)
Dopo molte ore di attesa della partenza per la Sicilia è annunciato che tutti i voli da Bratislava sono stati cancellati: la compagnia aerea è fallita. I cambi di programma mi rendono più attento. La sera mi telefona un amico in vacanza in Ungheria e mi propone di tornare con lui in Italia in macchina così possiamo darci il cambio nella guida. Prendo il treno per Budapest. Mi trovo accanto ad un musicista ungherese. Lui stupito di sentirmi parlare ungherese tira la conclusione che certamente giro questi paesi per avventure d’amore. Gli rispondo: “Sì, sono qui per una grandissima avventura d’amore: Dio!”. Lo vedo scombussolato, divertito, curioso. Dopo aver superato lo sconcerto, mi chiede: “Ma come fai a essere certo di Dio?” Gli rispondo che leggo gli avvenimenti. E gli racconto l’accaduto. Il mio viaggio sembra sia cambiato, in realtà le circostanze mi rimettono in un altro programma certamente migliore. Lo stare al gioco mi permette di fare continua esperienza di Dio vicino. Il musicista allora: “Possibile che Dio sia così vicino da entrare nella nostra quotidianità? Se è così, la compagnia aerea è fallita perché potessimo incontrarci. Si vede che sei una persona felice”. Quando fu ora di scendere lo vidi commosso.
Nel primo pomeriggio esco per una passeggiata. La neve è sempre una piacevole novità e il bosco mi sembra ancor più incantato. Seguo il sentiero tracciato dalle orme di qualcuno e mi stupisce lo splendore del bianco tagliato con forza dalle trame minacciose degli alberi, artigli ossuti aggrappati ad un cielo senza qualità. Mi sento stanco, schiacciato da situazioni che assommate ad altre hanno creato una coperta spessa che mi impedisce di capire il senso di ciò che mi sta accadendo. Parlo tra me e me. Interrogo la voce che dentro sempre mi ha accompagnato. Sembra sepolta, cancellata. Cerco, con presuntuosa compiacenza, qualche soluzione immediata, qualche preciso sentiero di uscita. Silenzio. Tutto è ovattato, senza voce. Poi la neve, nella sua innocenza, mi distrae. Da bambino, in Sicilia, non sapevo cosa fosse la neve e quando mio padre preparava il presepe, la pastorale, sulle casette fatte da cartoncino spalmato di colla di farina e coperto da sughero grattato, mettevamo grossi fiocchi di cotone, sparsi qua e là. Ora di neve ne godo tanta e non vedo gli aspetti disagevoli che comporta. Sono nel cuore del bosco e mi accorgo che sto parlando a voce alta. Mi soffoca il ricordo delle cose fatte male, l’evidenza dei miei difetti, gli errori ricorrenti, i vuoti mai riempiti. Questa insopportabile imperfezione denuncia la mia friabilità. E la voce che mi consolava ora è annegata nel silenzio che stagna dentro di me. La neve scricchiola sotto i miei passi. Una volta ho letto che dal rumore della neve si può capire quanti gradi sotto zero siamo. Mi fermo per guardare in alto fin dove si protendono gli artigli degli alberi. Anch’io sto implorando. Il mio dolore riuscirà a sorpassare quei rami? La mia preghiera si svincolerà dallo spessore vischioso del silenzio? Nessuna risposta. Girando lo sguardo attorno, resto attonito per la suggestiva scena che mi abbraccia. Come mai non ho notato questo scenario? Non vedo più tronchi neri ma volumi che appena emergono dal bianco. Da questo lato gli alberi non sono più neri, sono stati assaliti dalla neve. La neve sui rami appesantiti ha creato un ricamo che scende fino a me. Passo sotto, quasi a piegarmi fino a terra, sotto un arco di trionfo intarsiato da un artista senza pari. Mi vengo a trovare al posto dove la superba altezza degli alberi mi dà sempre l’idea di un tempio costruito dai ciclopi. Il candore ha messo guanti gentili anche ai loro rudi e severi capitelli. Quante sfide, quanti venti, quante bufere, quante arsure! Ma ora è festa. Mi torna in mente una frase di Benedetto XVI ad una Messa di Natale: “È il Creatore dell’universo ridotto all’impotenza di un neonato. Accettare questo paradosso, il paradosso del Natale è scoprire la verità che rende liberi, l’Amore che trasforma l’esistenza. Nella notte di Betlemme, il Redentore si fa uno di noi, per esserci compagno sulle strade insidiose della storia”. Il paradosso del Natale! Il Creatore ridotto all’impotenza. Al silenzio. Devo attendere che cresca perché mi dia le risposte di cui ho urgenza? O sono io che devo raggiungerlo nella sua piccolezza, nella sua debolezza? La scena che mi accompagna ai due lati è decisamente solenne, festosa; navate di una cattedrale innalzata per me. Il silenzio mi permette di udire una melodia antica: è il coro che accompagna sempre i paradossi dell’Amore ed ha bisogno di molto silenzio. Di ascolto. L’effimero e provvisorio sentiero segnato dai miei passi mi sta conducendo verso Natale.
"Natale come viaggio nella tenebra della notte verso la Luce" vetro di Marek Trizuljak
Conosco un drammaturgo, professore in un ateneo. Mi aveva confidato di avere una figlia, l’unica avuta, portatrice di un handicap e che quella disgrazia aveva distrutto anche il suo matrimonio. Nell’insegnamento e nella rappresentazione dei suoi drammi trovava il senso della sua vita. Una volta, parlando del consumismo gli avevo espresso che il danno più grave era che non tenesse conto della realtà dell’uomo tutto intero, della sua innata qualità di trascendenza. Si meravigliò, era ateo. Secondo lui la ragione è sufficiente a se stessa e questo è l’unico vero talento dell’uomo. Era convinto che la secolarizzazione sia la più grande conquista e che le masse dei credenti sono il freno per il progresso umano. Come un automa mi definì la religione alienazione e oppio dei popoli.
Recentemente, dopo anni di silenzio, il professore mi ha scritto: “Ricordi le discussioni? Non è che io avessi da ridire sulla tua fede ma ero convinto che con gli anni ti saresti reso conto in quale trappola eri caduto o comunque da quale trappola dovevi cercare di uscire. Eppure quando mi dicesti “professore, lei non avrà pace finché il mistero non sarà per lei una necessità” qualcosa si è incrinato dentro di me! Non ci siamo più visti, mi sembra, da quella volta. Quelle parole, inesorabili come un colpo di fucile sono rimaste lì, sospese nell’aria, una spada di Damocle sempre sulla mia testa.
Il mistero, l’ignoto, erano per me spazi da conquistare. Una volta conquistati i territori sconosciuti, la mia dignità mi imponeva di scandagliare altri enigmi, scioglierli, decodificarli. Questo era per me lo scopo della vita. Il mistero, oscuro e sospetto, era l’unico vero nemico dell’umanità, il nemico da smascherare e abbattere.
L’anno scorso mia moglie è stata ricoverata in una clinica con un male incurabile e mia figlia Caterina è rimasta per mesi da sola nell’istituto dove è ospitata. Le infermiere mi hanno fatto sapere che non stava bene. L’ho raggiunta. Era caduta in depressione. Non aveva voglia di vivere. Appena mi ha visto ha chiesto come stava la mamma. Non sapevo cosa dirle. Avevo nella borsa due mie opere con la dedica per lei. Che peso quei due libri! Com’era insopportabile la vergogna di girare soltanto attorno a me stesso!
In quella stanza tutto era capovolto. In quello spazio anonimo, pur se pieno di tutto ciò che è necessario per una vita dignitosa, mi sentii sperduto, inutile, fuori posto. Mia figlia non mi guardava in faccia. Io guardavo con lei e vedevo fuori dalla finestra le fronde senza foglie dei pioppi. La finestra aveva delle grate. Come un carcere. Lei era sempre lì. Io potevo viaggiare. Lei aveva bisogno di poco. A me, il molto non bastava. Eppure avevamo lo stesso sangue. In quale mani stava la regia di questo gioco? Perché a Caterina era toccato un posto con le grate e a me viaggi, serate in smoking, applausi, spazio e spazio. Lei mi chiese ancora come stava la mamma. È tutto quello che ha. Il suo tutto è una persona. Ora le mancava. Qual era il mio tutto?
Ero già nel viale antistante l’istituto. Mi girai a guardare la finestra con la grata. Non so perché, ma ebbi l’impressione di non capire più niente. La mia libertà di andare dove volevo era vincolata alle cose da fare, ai progetti da realizzare. Caterina non ha progetti. Caterina ha soltanto un affetto.
Quella strada fino al taxi non so se è stata lunga o corta. Il mio passo si era fatto di piombo. L’aria era soffocante. Snervante.
Chiesi al tassista di portarmi nella clinica dov’era ricoverata mia moglie. Da anni non mi aspettava più. “Come sta Caterina?” mi chiese sorpresa. Quando mi vide piangere ebbe paura che le annunciassi chissà cosa. Mi trovai solo. Escluso da un mondo di affetti. Quei legami mi parvero compatti. Inesorabilmente crudeli e avversi. Ero solo davanti ad una vita che era andata avanti senza di me. Nessuno aveva bisogno di me. E io non ero capace di dare niente. Nel totale smarrimento mi vennero in mente le tue parole. Sì, se non fosse illogico ti direi che in quel momento mi sarei messo a pregare. Ero come un imputato, un condannato. Non c’era più l’arroganza che in altri momenti mi aveva fatto imprecare. Ero più povero di mia moglie condannata a morte, preoccupata soltanto del futuro della figlia. Ero meno libero di una creatura seduta in carrozzella che guarda il cielo, che vive dei suoi colori e delle sue stagioni e non sa altro.
Disarmato e vinto, non fui capace di ripartire. Cominciai a portare a Caterina le notizie della mamma e alla madre le notizie della figlia. Il mistero, l’inafferrabile era entrato nella mia esistenza. Avevi ragione tu. Ora mi sembra che l’unica cosa veramente necessaria per vivere sia qualcosa di estremamente semplice. Ti ringrazio!”.
mercoledì 16 dicembre 2009
Carissimi Ilaria, Cristian, Alessandro e Andrea,
in attesa di incontrarci, vi mando una favola.
Mi farete contento se mi manderete un disegno.
Un abbraccio da Tanino
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Zio Teodoro abitava in una casetta costruita all’imbocco di una grotta profonda e misteriosa davanti al mare. La casa era splendente perché ricoperta da conchiglie di madreperla che si accendevano al sole del mattino e alla luna della notte.
Zio Teodoro, seduto sulla sedia a sdraio, parlava al mare e il mare a lui. Si scambiavano segreti. Quella mattina, mentre ascoltava il mare, sentì il pianto di un gattino. Proveniva dall’interno della casetta, dallo sgabuzzino. Non sapeva come e quando vi si fosse intrufolato. Come trovarlo in quel bugigattolo? Guarda, dove si è cacciato questo birbante!
Il micio si era andato a nascondere in un angolino dietro ad una piccola cassaforte di legno. Il gattino era nero, tremava per la paura ma si lasciò prendere senza resistenza. Spalancò i suoi occhi verdi per vedere in faccia il suo salvatore e al calore di quelle mani grandi e salate finì di piangere chiudendo furbamente gli occhietti come se volesse addormentarsi. Allora zio Teodoro, che tutti chiamavano zio Teo, cercò in giro una scatola dove metterlo a dormire e quel bauletto gli sembrò della misura giusta, ma era chiuso e non sapeva cosa ci fosse dentro. Con la mano rimasta libera, mentre nell’altra teneva il gattino, cercò di aprire il lucchetto. Niente da fare! La salsedine aveva arrugginito anche la serratura. Il gattino era ormai tranquillo, allora zio Teo mise il micio in una tasca della sua giacca gialla e portò la cassa sul terrazzo che stava davanti alla casetta. «Come ti chiami?» chiese Teo. Il micio, assonnato, lo guardò a lungo poi miagolò. Era questo il suo modo di parlare, e disse che si chiamava Ciccino.
In cucina trovarono un pezzetto di pesce arrostito rimasto dal giorno precedente e zio Teo lo mise in una scodellina di ceramica colorata, ricordo di un viaggio in Sicilia. Ciccino, non perse tempo a mangiare tutto.
Zio Teo guardò ancora intorno per vedere dove mettere a riposare il nuovo arrivato. In cucina, al lato del camino, c’era una cesta vuota. Ecco quello che cercava! Vi sistemò un vecchio maglione rosso e Ciccino senza salutarlo vi si sdraiò e cominciò a dormire.
Era stato il micio a fargli ritrovare la cassaforte. E come aprirla? Poi si rese conto che la ruggine aveva talmente consumato la serratura che bastò una piccola botta per far aprire il coperchio di botto.
La cassa era così piena che, appena aperta, alcuni foglietti di carta ingiallita, dispiegarono le ali e presero il volo come farfalle. Nella cassa c’erano i sogni di zio Teo, i ricordi, le favole. C’erano poesie e racconti. Zio Teo si rese conto di aver già dimenticato il suo passato. Guardò pensieroso lontano e il mare gli spiegò che ogni pezzo di vita rimane, da qualche parte e che, alla fine, ritorna come l’onda del mare.
Carta dopo carta, zio Teo voleva arrivare fino al fondo e più aumentava il mucchio fuori dalla cassa, più cresceva la sua commozione. Poi, dal fondo della cassa, qualcosa sembrò muoversi, luccicare. Cosa c’era? Chi poteva esserci in quella cassa chiusa da anni?
Tirate fuori le ultime carte sembrò che in fondo alla cassa ci fosse una luce accesa. Possibile? No! Era uno specchio che rifletteva il sole e il volto incuriosito di Teodoro che appena vide se stesso, con i lunghi capelli bianchi al vento, fece un urlo di gioia e meraviglia! In quel momento sentì miagolare Ciccino.
Corse da lui e lo trovò che si stiracchiava dopo una bella dormita. Zio Teo lo prese e lo portò sul terrazzo. Mentre lo zio leggeva le vecchie pagine, Ciccino si allontanò. Dopo qualche ora, zio Teo cominciò a preoccuparsi. Era già alla ricerca di Ciccino, quando sentì molti passi verso la sua casa. Era Ciccino, seguito da tanti bambini.
«Cos’hai in mente?» chiese serio zio Teo.
Ciccino fece capire che desiderava che lui raccontasse ai bambini le favole. Zio Teo si sedette in mezzo ai bambini seduti in cerchio, pronti per ascoltare. Chi aveva organizzato tutto?
Eh, sì, era proprio iniziata una stagione incantata e zio Teo non poteva neanche meravigliarsi. Strizzando l’occhio a Ciccino cominciò a leggere.
Hanno così inizio le “Storie incantate di zio Teodoro”.
Raccolgo le pubblicazioni secondo alcune etichette o titoli:
1.40 anni di stupore: momenti importanti del mio cammino, dove Dio, regista invisibile, si è fatto sentire chiaramente.
2.Dedicato a Chiara: momenti con Chiara Lubich.
3.Frammenti di tempo amato: incidenti colorati durante il percorso della vita.
4.In diretta: domande dei lettori che possono interessare ad altri (chiedo sempre il permesso di pubblicazione).
5.Le storie incantate di zio Teodoro: favole.
6.Parole vive: quando ho messo in pratica il Vangelo
7.Persone: persone incontrate che vorrei far conoscere anche a voi.
8.Quale amore giurare?: fatti di vita che, come tali, hanno un messaggio.
9.Sul bordo della luna: riflessioni in forma poetica.
Inoltre vedete
Link utili: che consiglio di conoscere.
Altre notizie su di me: per chi volesse conoscermi oltre alle esperienze, alle favole, alle risposte che pubblico.
Quando Città Nuova mi ha offerto la possibilità di un blog, ho chiesto cosa avrei dovuto metterci. La risposta di Giulio fu: “La tua cifra sono le esperienze”. Siccome vivo all’estero e non uso l’ultima lingua italiana, la parola cifra, pur comprendendone il significato, mi è sembrata una di quelle parole difficili che è meglio non contestare per non fare cattiva figura.
Mi sono andato a cercare la parola cifra ed ho trovato i seguenti significati: segno, nota, monogramma, carattere, numero, somma, ammontare, sigla, abbreviazione, codice, formula, scrittura segreta, crittografia, chiave…
L’orizzonte perse improvvisamente la sua linea e dal cielo le nuvole scapparono per paura che chiedessi a loro la spiegazione. Non mi restava che inserire nel rettangolo indicatomi delle parole e attendere.
Ecco sbocciare improvvisamente voci conosciute e sconosciute: e-mail, telefonate, lettori sostenitori, quelli anonimi... irraggiungibili e vicini, oppure quelli che mi rispondevano raccontandomi la loro storia.
Allora sì che divenne chiaro tutto. All’orizzonte tornò a posarsi delicatamente la linea che dice dove comincia il cielo e fin dove si spinge il mare (questa è pura metafora perché in Slovacchia il mare posso solo immaginarlo) e le nuvole si sono affrettate nella loro posizione, sicure che le avrei lasciate in pace a recitare la parte dell’autunno, una scena che si ripete perfettamente rendendo tutto dello stesso colore grigio.
Ecco svelato il codice segreto. Siete voi la mia cifra! E ci voleva Città Nuova per farmi incontrare con voi e permettermi questa “esperienza”!
Siamo nel preludio del Natale. Vorrei donare a ciascuno di voi un regalo unico, una parola che non sia stata mai usata, che sia vera, unica, calda. Eccola, l’ho trovata! GRAZIE!
Una gelida alba mi alzo per accompagnare qualcuno all’aeroporto. Avverto segni di mal di gola. Una spremuta d’arancia è quello che ho bisogno. Mentre la preparo mi viene in mente un’invocazione di Madre Teresa di Calcutta: “Signore, quando ho fame, dammi qualcuno che ha bisogno di cibo; quando ho sete, mandami qualcuno che ha bisogno di una bevanda…”.
È spontaneo quindi, alla colazione preparata per l'ospite, aggiungere la spremuta. Non c'è tempo per farne un’altra.
Mentre ci avviamo all’aeroporto mi rendo conto di essere felice e libero. E soprattutto sveglio. Eppure non ho preso neanche il caffè. Cosa mi ha svegliato?
Un succo d’arancia donato non è proporzionato alla gioia che ora mi scalda e mi libera. Un gesto di carità non è paragonabile alla comunione che stabilisco con il mio prossimo. Certo i santi, definiti da Chiara Lubich come Vangelo dispiegato nel tempo, sanno come aiutarmi a mettere in moto la mente, come aprire il mio cuore. Sì, perché è il Vangelo che dà alla mia quotidianità una dimensione compiuta.
Si avvicina l’inizio di un nuovo anno. Come sarebbe bello voltare pagina e vedere un mondo di pace, d’armonia! Come posso contribuire io? L’unico bene che posseggo è quello che io posso fare, ho un tesoro da disseppellire ogni volta e condividerlo con chi mi è vicino ora, ora, ora. Ciò mi aiuta a vedere. Come madre Teresa ha fatto con me.
Nella tempesta di informazioni che uccidono la speranza, le parole del Vangelo, accese da chi le mette in pratica, sono i catarifrangenti che impediscono che io esca di strada e mi indicano come avanzare verso la meta. Soprattutto mi aiutano a rimanere sveglio.
Caro Tanino, ho accompagnato all’aeroporto il “mio” ragazzo. Da qualche tempo si trova in Inghilterra sia per la lingua che per guadagnare qualcosa. Volevamo così accelerare i tempi per poterci sposare. Stavolta, però, non è stato facile stare accanto all’uomo che ho immaginato come compagno di vita. L’ho sorpreso pensieroso, lontano, insicuro. Mi ha detto che negli utimi mesi, lavorando in una parrocchia, aiutando bambini e vecchi, ha pensato che sarebbe bello vivere per gli altri, totalmente. Non avere altri progetti se non le necessità degli altri ed ha pensato che ciò sia segno di una chiamata al sacerdozio. Parla di Dio come primo e vero amore. È possibile una tale trasformazione? Follia quello che abbiamo vissuto finora? E io? Non conta il mio esistere? Certo non mi metterò a concorrere con Dio, se Dio è colui che mi sta togliendo il compagno, ma sento di essere sull’orlo di un burrone. Sandra B.
Sandra, ti capisco. Siamo tutti sull’orlo del burrone, ma…
Accettare il mistero, l’inconoscibile, l’imprevedibile è una grande opportunità che hai. Il tuo ragazzo si è trovato vicino al mistero ed ha intuito che forse ci sono altri modi di dare senso alla vita, oltre ai programmi già fatti.
Quello che avete vissuto è stata la via per arrivare a questo punto e anche tu sei stata un aiuto necessario.
Ora puoi entrare nella dimensione dove il tuo ragazzo è entrato.
Forse lui ha bisogno più che mai di essere capito, soprattutto da te.
Sii madre e non soltanto donna.
Mi chiedo che sensazione si provi dinanzi ad una cascata di contatti sempre più numerosi ed entusiasti come quelli che ricevi su CN e sicuramente da persone che neanche ti conoscono. (…) Ora mi fai compagnia dappertutto: nel film dei ricordi, nelle cose che mi doni via mail, nelle preghiere, sul Blog e sulle pagine di CN e se penso che Lui mi ha offerto anche la tua fraterna amicizia e la tua generosa stima, non credo di avere niente di simile per contraccambiare e Lui e te. Luisa
La mia risposta è che continuo a stare alle indicazioni del “Regista”. E sono veramente contento. Anche la gente che mi scrive è parola Sua. Ringraziando te, so che sto ringraziando il Regista.
...piango ascoltando della condanna di due ragazzi da parte del tribunale di Perugia, chissà se hai seguito la triste vicenda..mi immedesimo nei loro sentimenti, in quelli dei genitori, dei fratelli. Perchè condannare, se c'è la certezza che, ammesso che siano colpevoli, non faranno più del male? Colpevole: chi di noi non lo è, chi non potrebbe esserlo stato? Basta un attimo di trasgressione...quante volte si può uccidere un'anima, senza che nessuno poi ci condanni, senza che ne restino tracce, neppure un rimorso. Dimmi qualcosa, Tanino, ma forse è già tutto scritto in Dostoevskij... Rita
Il tuo pianto fa andare avanti l’umanità. I ragazzi condannati rivelano che sono orfani. Un sortilegio malefico frammenta la conoscenza della verità e non sappiamo vedere l’origine dei mali. Le case sono vuote di padri e di madri, le scuole sono vuote di maestri, le istituzioni sono asini che mangiano la paglia che trasportano. Ricucire gli strappi è possibile. Ma non è una formula. È il tuo pianto che rende possibile ricucire ogni strappo.
Il teatro fu presto pieno. Il regista seguiva ogni passo, dirigeva ogni gesto. Ulisse, il prestigiatore, portò in scena un tavolo coperto da una tovaglia di velluto nero e una scatola dove teneva le carte, il cilindro, il coniglio e poi metri e metri di nastri colorati. Portò anche un lucente candelabro con tre grandi candele per illuminare il gioco.
In sala tutti stavano ad aspettare. Gigi con lo zufolo intonò il pezzo più bello che gli aveva insegnato il vento, mentre il piccione, al giusto ritmo, batteva su un tamburo che rimbombava bene, mentre il regista batteva le sue dita sui braccioli della sua poltrona.
Ulisse, con grande maestria, accese un fiammifero e subito ci furono applausi, gioia e attesa. La prima candela si accese subito e anche la seconda. La terza, che era molto vanitosa, vedendo che il fuoco cominciava a consumare le altre, non volle accendersi. Invano il prestigiatore strofinò altri fiammiferi. Niente da fare. La candela non si lasciò accendere. La seconda, vedendo con quale rapidità il fuoco mangiava la cera, si spense presto. La prima, unica rimasta a far luce era felice di aiutare il prestigiatore a dare gioia agli spettatori. I giochi, uno dopo l’altro, avevano ormai attirato l’attenzione del pubblico.
Nella sala il silenzio divenne così denso che tutti potevano sentire cosa stavano dicendo le candele. Quella scena non era prevista. Il regista era sorpreso.
La terza diceva: «Non vedete come il fuoco consuma? Di voi cosa rimane? Io sono rimasta intera e tutti possono vedere quanto sono bella e colorata! Vedrete che applausi riceverò».
La seconda, rimasta mezza bruciata e mezza no, era addolorata di non essere più intera. «Vedrete che mi farò ricostruire, più bella di prima. C’è un istituto di bellezza che fa miracoli!»
La prima era quasi alla fine, non aveva forza di ascoltare quello che dicevano le altre, ma era felice. Il piccione, allora, prese quell’ultimo pezzo di candela e in fretta volò ad accendere i lumi della sala e dei palchi. Acceso l’ultimo lume, la candela era già tutta consumata. In quel momento finirono anche i giochi.
Un grande applauso riempì la sala. Le due candele rimaste sul candelabro continuavano a fare inchini di ringraziamento, ma quando la sala si accorse di loro, l’applauso si trasformò in fischi e pernacchie e improperi. La candela mezza bruciata, quella poco coraggiosa, per la vergogna di non essere intera e bella divenne rossa. La terza, quella vanitosa, pensò che a lei toccasse il successo della serata perché era bella, intera, artistica, elegante, raffinata. Era convinta che gli applausi li meritasse soltanto lei. Era commossa del suo raro splendore. Ma Ulisse, senza nessun rispetto per la sua bellezza la buttò nel sacco dell’immondizia in mezzo a cartacce, torsoli di mele, fazzoletti di carta sporchi: «Tu non servi a nulla, brutta candela del diavolo, l’altra forse si accenderà, la tengo per un altro spettacolo!»
In sala tutti i personaggi, dai loro posti osservavano la scena. Poi il sindaco andò sul palco e disse:
«Parlo a nome di tutta la città. Stasera, voi candele, ci avete dato una grande lezione. Veramente una candela che non brucia non serve a nessuno. Chi brucia a metà forse può ricominciare. Ma la candela che si è consumata è lei che ci ha permesso di vedere i giochi e ci ha fatto capire che soltanto facendo luce ha dimostrato di essere candela, di fare l’unica cosa che sapeva e poteva fare. La cosa più importante della vita è capire cosa ha bisogno chi ci sta vicino e forse noi e soltanto noi abbiamo la possibilità di realizzarlo. La luce che non fai è gioia che non hai».
Gigi quasi senza accorgersene riprese a soffiare nello zufolo e tutti si alzarono e si misero a danzare con grazia ed eleganza. Sembravano onde del mare, fronde di alberi in festa, fiori dolcemente mossi dal vento. Quella musica aveva creato un tale silenzio e una tale bellezza che il regista si rese conto di non aver mai diretto scene così perfette. Era bastata una melodia?
Ulisse allora tirò fuori dalla sua scatola tutti i nastri colorati che presto si allungarono su tutta la sala e su tutti i palchi e da lì nei corridoi, per le scale, la gente uscì per le strade della città. La sfilata invase le vie come un ruscello. Ogni finestra si aprì e presto tutti gli abitanti della città furono sulle strade a fare festa.
«Che musica! Sembra di conoscerla da sempre!»
Il regista che assieme a Gigi seguiva lo spettacolo dal balcone disse: «Non ho mai diretto una scena così bella e così vera. Come sanno danzare bene! Come sono belli tutti!››.
Allora Ulisse, aprì un’altra scatola di nastri d’argento e d’oro e li lanciò dall’alto. Velocemente quei nastri riempirono le vie della città e alla luce della luna lanciavano riflessi sui monti e oltre, mentre Gigi commosso li accompagnava con la melodia che il vento gli aveva insegnato. La notte fu ricamata da un meraviglioso disegno di luce.
Favola trasmessa dalla TVLUX slovacca il 29 e 30 nov. scorso. Appena avrò fatto fare il doppiaggio in italiano la inserirò nel blog.
-->L’aereo decolla, le hostess eseguono quello che l’altoparlante dice in due lingue. Recitano con gesti uguali e puntuali i suggerimenti di come allacciare e slacciare la cintura, come gonfiare il salvagente, come comportarsi in caso di necessità. Un bambino ripete i gesti delle hostess. “Voglio il salvagente!” grida alla mamma.
Un signore che siede accanto a me, dal portamento atletico, stile casual, sbuffa: “Tutte storie! Nessuno si è mai salvato con questi consigli. È un gesto scaramantico”. Inizia con lui una chiacchierata generica. Durante un silenzio apro l’agenda dove ho appuntato il programma che mi attende. Con la coda dell’occhio scorgo nel corridoio dell’aereo l’hostess che avanza molto lentamente. Vedo che sta aiutando un’anziana signora. La tiene per mano come fosse una bambina e lei si aggrappa all’elegante hostess con tutte e due le mani. È una vecchietta mezza cieca evidentemente disorientata da un viaggio forse non usuale per lei.
Chi mi sta seduto vicino mi fa cenno di osservare l’hostess: “Ma non è quella di prima? Che strano, non avrei mai pensato che una tale bambola potesse avere tratti di maternità. Sconvolgente!”.
La signora che occupa il posto vicino all’oblò interviene: “Un giorno nella metropolitana di Roma è salito uno zingaro musicante con una bambina piccolissima che lui mandò in giro a raccogliere soldi. Quella bambina era talmente bella e talmente piccola che ha sciolto l’aria di diffidenza e fastidio che si era dipinta sui volti attorno”.
Al vicino viene in mente che una volta stava attendendo il suo capo alla fermata di un bus e l’impazienza si era già impadronita di lui. Lo sguardo gli cade sul tram che si stava mettendo in movimento e scorge un giovane che prontamente si stava alzando per cedere il posto ad un anziano. “Quel gesto ha messo a nudo la mia impazienza. Anche la persona che attendevo era anziana e potevo anch’io fare un gesto cortese, quello di non fargli pesare il ritardo”.
“Quanti gesti emanano pace o quanti aumentano le tensioni! ‑ Pensai.‑Eppure forse mai sapremo fin dove agiscono i nostri comportamenti, come quel ragazzo sul tram che non sa nemmeno cosa ha prodotto il suo gesto”.
Il vicino, quasi leggendomi il pensiero, dice: “Chissà quante di quelle milioni di cose che facciamo producono effetti di cui mai avremo riscontro, come un sasso che butti nell’acqua e le sue onde si allargano, si allargano! Mi chiamo Marco”, dice porgendomi cordialmente la mano. “Piacere, Gaetano!”. “E io sono Francesca!” si fa avanti spontaneamente la signora.
Il mare bianco di nubi sotto di noi ci faceva sentire leggeri e veloci. Quando l’hostess viene a offrirci le bibite Francesca dichiara di essere medico e si offre, se ce ne fosse necessità, di fare qualcosa per quella donna che prima aveva accompagnato. L’hostess accoglie subito l’offerta perché sembra che la vecchietta sia stata colta dal panico. Francesca si alza senza prendere nulla di quanto le veniva servito, prende invece una borsetta dal ripostiglio sopra di noi. “Mi porto sempre dietro il mio pronto soccorso!”.
“Che strano mondo ci tocca abitare! - esclama Marco. - Ciascuno di noi è assetato di fare il bene, ma ha paura. Perché? Teme di perdere qualcosa? Osservando il vivere degli uomini mi sembra che il bene che ogni volta facciamo si assomma al bene fatto prima, non si perde. E tu che ne pensi?”.
Cerco nelle mia vita quei fatti che sorreggono le mie convinzioni.
“Anch’io sono convinto che il bene si assomma al bene mentre il male si corrode in se stesso. Sono credente e come tale penso sia determinante il valore che si dà agli altri, ad ogni altro. Una sera alla fermata di Piazza Mosca a Budapest, salì sul tram dove viaggiavo, un barbone. Accanto a lui si fece il deserto. Non era facile restargli vicino. Lo aiutai a sedersi. Era ubriaco. Quando fummo ad una certa fermata, dopo avermi chiesto conferma della stazione, si alzò, come potette, per dirigersi verso l’uscita, ma girandosi verso di me, barcollando, mi si fece vicino e, fissandomi con due occhi che riflettevano un cielo lontano, compose il gesto di un abbraccio. L’alcol evidentemente non gli aveva impedito di percepire che lo avevo rispettato. Da allora, anche con un certo impegno, ho imparato a non lasciarmi condizionare dalle esperienze già fatte, sia positive che negative e di mettermi di fronte ad ogni persona, ad ogni evento come se non sapessi nulla. Questo esercizio mi ha insegnato non solo a scoprire e ad apprezzare gli altri ma anche a vedere di cosa io stesso sia capace. Ho letto che il fenomeno della fata morgana si spiega perché nella nostra mente abbiamo delle forme che applichiamo a quei raggi luminosi che rifrangendosi ci raggiungono attraverso l’atmosfera. Praticamente noi vediamo soltanto quelle forme che già conosciamo. È un miraggio. Tante volte ho notato che più che cercare di conoscere una persona per quello che è mi lascio condizionare da quello che già so, dal miraggio”.
Francesca ritorna quando sente l’annuncio di riallacciarsi le cinture perché inizia l’atterraggio e ci racconta che la vecchietta aveva attraversato l’Atlantico. Ora da Roma tornava in Sicilia. Era andata ad assistere un figlio morente che, emigrato negli USA, non era mai tornato in Italia. Dolore per il figlio, disorientamento per questo suo primo viaggio fuori dal suo paesino.
“Si è distesa dopo un bel pianto. Ho pianto con lei. Basta così poco per scoprire che siamo uguali! Se si sapesse quanto bisogno abbiamo l’uno dell’altro le cose andrebbero diversamente”. Così diceva Francesca guardando fuori dal finestrino.
Anch’io con Marco sbirciamo. La Sicilia sembrò attenderci in festa. Saremmo rimasti ancora a volare.