Renata, lettrice di Città Nuova, ha
scritto di non poter rinnovare l’abbonamento per motivi economici e, sperando
l’arrivederci per un momento migliore, ringraziava anche me tra quanti le hanno
dato qualcosa attraverso le pagine di questa rivista. Leggendo le sue righe,
non sono rimasto indifferente. Ci ho ripensato anche nei giorni seguenti. Una
lettrice che non conosco, attraverso la sua comunicazione, mi ha fatto comprendere quanto ogni azione che io posso
compiere abbia un suo valore, non per me, ma per gli altri. Scriveva tra
l’altro che io l’ho aiutata «a capire l’importanza dei semplici gesti
quotidiani...».
Renata ha saputo individuare e mettere a fuoco la lezione che la vita mi fa, giorno dopo giorno, e che mi aiuta a sperimentare come l’umanità sia una realtà unica. Me lo spiegava un amico, amante di alpinismo, convinto che per contribuire a che l’umanità diventi un’unica famiglia, basterebbe farle fare un’arrampicata in cordata sulla roccia. In quelle condizioni ci si rende conto di quanto ogni gesto che uno fa possa avere conseguenze decisive di vita o di morte per gli altri. Siamo responsabili l’uno dell’altro.
Un giorno sui sentieri del lago di Albano stavo fotografando degli asfodeli che crescono sul versante assolato del lago vulcanico. Un signore rallenta il passo, si ferma, mi osserva e mi chiede il nome del fiore. Gli rispondo che gli antichi greci mettevano questi fiori attorno alle tombe perché i morti si potessero nutrire dei loro tuberi. Essi avevano una precisa concezione degli spazi dell’aldilà secondo i meriti acquisiti nella vita: il Tartaro per i cattivi, i Prati di asfodelo per chi non era stato né cattivo, né buono, e i Campi Elisi per i buoni. L’anziano signore intervenne: «I Prati d’asfodelo, ecco la mia patria!»; e cominciò a raccontarmi che era scappato dall’Ungheria nel 1956 durante i tristi “fatti” che avevano provocato tante vittime e tante delusioni. Lui aveva sperato che Imre Nagy sarebbe riuscito a cancellare le crudeltà dello stalinismo, e si era invece venuto a trovare di fronte alla recrudescenza della dittatura. Non rassegnato alla violenza dei carri armati invasori, si era dato da fare... per poi venire arrestato e, dopo un sommario processo, condannato a morte come destabilizzatore della democrazia. Era riuscito, però, a scappare e a trovare rifugio, dopo molte peripezie, in un Paese del Nord Europa: «Con sacrifici ho potuto portare a termine gli studi e a farmi una posizione. Ho sposato una donna intelligente, ma nel giro di pochi anni mi ha lasciato assieme alle due bambine che avevamo adottato. Nella nuova solitudine ho messo tutto l’impegno a dare un futuro alle figlie. Anche loro col tempo hanno preso il volo. Vivono molto lontano da me. Ora, vecchio e malato, mi chiedo che senso ha avuto essere scampato alla pena di morte. Talvolta penso che sarebbe stato meglio morire piuttosto che conoscere la disumanità della società. Tornare dagli amici? Uno dopo l’altro, se ne sono già andati. Rimango in una città che non è mai diventata mia, ad attendere che le figlie vengano a chiedermi soldi. La morte metterà il punto alla crudeltà della vecchiaia».
Il dolore di quell’uomo esigeva rispetto. Mentre camminavamo accompagnati dagli asfodeli, l’anziano, con un quasi-sorriso, soggiunse che forse eravamo già nell’Ade, tra quelli che non hanno fatto né bene, né male. Proseguivamo il cammino in silenzio. A un certo punto lui si fermò a guardare una foglia rossiccia, in mezzo al tenero verde delle piante che delimitavano il sentiero:: «Strana questa foglia, è malata. Forse è stata attaccata da una malattia, dal freddo oppure è soltanto vecchia. Una volta avevo la passione per la fotografia. Osserva questo quadro con le piante più varie. Questa foglia rompe la monotonia del verde. Si direbbe che sia la cosa più inutile, eppure in mezzo a questo vigore della primavera, la foglia vecchia ha una funzione».
Mi sembrò l’esatta metafora della sua vita. Mi aiutò a non aggiungere niente a una bella affermazione di Guardini: «Soltanto dal silenzio si può realmente udire», ed io stavo accogliendo la tragedia di uno sconosciuto, anche se mi aveva subito offerto di darci del tu.
Poi lui riprese: «Non ho avuto il coraggio di accettare il fallimento su tutti i fronti. Sono sfuggito alla forca e ho continuato a scappare: dalla patria, dagli ideali. Tante evasioni hanno determinato il mio modo di essere. A mia moglie non ho saputo assicurare nessun appiglio. Le mie figlie hanno abbandonato la casa perché non è stata mai una famiglia. La disgrazia che mi ha fatto scappare dalla mia Ungheria ora continua a perseguitarmi. Sono una foglia inutile, snaturata dal tempo e dalla malattia. Cosa mi attende: il Tartaro? i Prati d’asfodelo? i Campi Elisi?».
Tirai fuori dalla tasca la macchinetta per fotografare la foglia malata: «Così mi ricorderò di te. In questo quadro di vita che rinasce, la foglia ha il suo ruolo: mette in risalto tutta la varietà di tono del verde. Non sei un vecchio inutile, sei necessario».
Salutandomi, il vecchio fuggiasco osservò: «Hemingway dice che i vecchi non diventano saggi, ma attenti.
Forse il mio guaio è che la mia condanna alla pena di morte mi ha chiuso gli occhi alla vita.
Devo riaprirli. Posso tornare a fare foto e imparare dalla natura che ogni cosa, anche la più banale, la più insignificante, nell’insieme ha un suo ruolo. Da sola non ha senso. Grazie per questa passeggiata sui sacri Prati d’asfodelo...».
«... per raggiungere i Campi Elisi», conclusi stringendogli la mano tremante.
Pubblicata anche su Città Nuova - n. 13/14 - 2013
Renata ha saputo individuare e mettere a fuoco la lezione che la vita mi fa, giorno dopo giorno, e che mi aiuta a sperimentare come l’umanità sia una realtà unica. Me lo spiegava un amico, amante di alpinismo, convinto che per contribuire a che l’umanità diventi un’unica famiglia, basterebbe farle fare un’arrampicata in cordata sulla roccia. In quelle condizioni ci si rende conto di quanto ogni gesto che uno fa possa avere conseguenze decisive di vita o di morte per gli altri. Siamo responsabili l’uno dell’altro.
Un giorno sui sentieri del lago di Albano stavo fotografando degli asfodeli che crescono sul versante assolato del lago vulcanico. Un signore rallenta il passo, si ferma, mi osserva e mi chiede il nome del fiore. Gli rispondo che gli antichi greci mettevano questi fiori attorno alle tombe perché i morti si potessero nutrire dei loro tuberi. Essi avevano una precisa concezione degli spazi dell’aldilà secondo i meriti acquisiti nella vita: il Tartaro per i cattivi, i Prati di asfodelo per chi non era stato né cattivo, né buono, e i Campi Elisi per i buoni. L’anziano signore intervenne: «I Prati d’asfodelo, ecco la mia patria!»; e cominciò a raccontarmi che era scappato dall’Ungheria nel 1956 durante i tristi “fatti” che avevano provocato tante vittime e tante delusioni. Lui aveva sperato che Imre Nagy sarebbe riuscito a cancellare le crudeltà dello stalinismo, e si era invece venuto a trovare di fronte alla recrudescenza della dittatura. Non rassegnato alla violenza dei carri armati invasori, si era dato da fare... per poi venire arrestato e, dopo un sommario processo, condannato a morte come destabilizzatore della democrazia. Era riuscito, però, a scappare e a trovare rifugio, dopo molte peripezie, in un Paese del Nord Europa: «Con sacrifici ho potuto portare a termine gli studi e a farmi una posizione. Ho sposato una donna intelligente, ma nel giro di pochi anni mi ha lasciato assieme alle due bambine che avevamo adottato. Nella nuova solitudine ho messo tutto l’impegno a dare un futuro alle figlie. Anche loro col tempo hanno preso il volo. Vivono molto lontano da me. Ora, vecchio e malato, mi chiedo che senso ha avuto essere scampato alla pena di morte. Talvolta penso che sarebbe stato meglio morire piuttosto che conoscere la disumanità della società. Tornare dagli amici? Uno dopo l’altro, se ne sono già andati. Rimango in una città che non è mai diventata mia, ad attendere che le figlie vengano a chiedermi soldi. La morte metterà il punto alla crudeltà della vecchiaia».
Il dolore di quell’uomo esigeva rispetto. Mentre camminavamo accompagnati dagli asfodeli, l’anziano, con un quasi-sorriso, soggiunse che forse eravamo già nell’Ade, tra quelli che non hanno fatto né bene, né male. Proseguivamo il cammino in silenzio. A un certo punto lui si fermò a guardare una foglia rossiccia, in mezzo al tenero verde delle piante che delimitavano il sentiero:: «Strana questa foglia, è malata. Forse è stata attaccata da una malattia, dal freddo oppure è soltanto vecchia. Una volta avevo la passione per la fotografia. Osserva questo quadro con le piante più varie. Questa foglia rompe la monotonia del verde. Si direbbe che sia la cosa più inutile, eppure in mezzo a questo vigore della primavera, la foglia vecchia ha una funzione».
Mi sembrò l’esatta metafora della sua vita. Mi aiutò a non aggiungere niente a una bella affermazione di Guardini: «Soltanto dal silenzio si può realmente udire», ed io stavo accogliendo la tragedia di uno sconosciuto, anche se mi aveva subito offerto di darci del tu.
Poi lui riprese: «Non ho avuto il coraggio di accettare il fallimento su tutti i fronti. Sono sfuggito alla forca e ho continuato a scappare: dalla patria, dagli ideali. Tante evasioni hanno determinato il mio modo di essere. A mia moglie non ho saputo assicurare nessun appiglio. Le mie figlie hanno abbandonato la casa perché non è stata mai una famiglia. La disgrazia che mi ha fatto scappare dalla mia Ungheria ora continua a perseguitarmi. Sono una foglia inutile, snaturata dal tempo e dalla malattia. Cosa mi attende: il Tartaro? i Prati d’asfodelo? i Campi Elisi?».
Tirai fuori dalla tasca la macchinetta per fotografare la foglia malata: «Così mi ricorderò di te. In questo quadro di vita che rinasce, la foglia ha il suo ruolo: mette in risalto tutta la varietà di tono del verde. Non sei un vecchio inutile, sei necessario».
Salutandomi, il vecchio fuggiasco osservò: «Hemingway dice che i vecchi non diventano saggi, ma attenti.
Forse il mio guaio è che la mia condanna alla pena di morte mi ha chiuso gli occhi alla vita.
Devo riaprirli. Posso tornare a fare foto e imparare dalla natura che ogni cosa, anche la più banale, la più insignificante, nell’insieme ha un suo ruolo. Da sola non ha senso. Grazie per questa passeggiata sui sacri Prati d’asfodelo...».
«... per raggiungere i Campi Elisi», conclusi stringendogli la mano tremante.
Pubblicata anche su Città Nuova - n. 13/14 - 2013
3 commenti:
Tanino, l'avevo letta su Città Nuova, ma mi ha dato, ridato tanta gioia.
Grazie, Gianna
Caro Tanino, grazie di questa condivisione piena di umanità ma anche di amore. Joca
Grazie Gianna e grazie Joca,
Joca, mi sorprendi e mi dai coraggio.
Auguri per tutto,
Tanino
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